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Mafia e danno esistenziale

di Sara Pezzuolo

 

“… l’un contro l’altro armato,

sommessi a lui si volsero,

come aspettando il fato;

ei fè silenzio, ed arbitro

s’assise in mezzo a lor…”

5 maggio, A. Manzoni

Chissà se è proprio questo quello che successe qualche mese fa in un’aula della prima Sezione Civile del Tribunale di Palermo quando, mafia e danno esistenziale si incontrarono.

Strage di Falcone e Borsellino, stragi di mafia, famiglie distrutte, morti, modificazioni alle attività realizzatrici della vita quotidiana, danni, risarcimenti. E’ di 3.360.000,00 euro il risarcimento che è stato riconosciuto a titolo di danno non patrimoniale anche esistenziale alla vedova ed ai figli di Paolo Borsellino.

Mafia e danno, in questo caso danno esistenziale. L’art. 416 bis del C.P. definisce “[…] l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire o ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali […]”. La letteratura in materia giuridica sul danno definisce il danno esistenziale come “[…] ogni pregiudizio (di natura non emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare aredittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno” (Cass. Sez. U., 24.03.2006 n. 6572) ed ancora “[…] il danno morale è essenzialmente un sentire, il danno esistenziale piuttosto è un non poter più fare, un dover agire altrimenti. L’uno attiene per sua natura alla sfera dell’emotività; l’altro concerne il modo di estrinsecarsi, il rapportarsi agli altri […]” (Trib. di Palermo, 8.06.2001).

Eccoci qua, in Via D’Amelio a Palermo, sedici anni fa. Paolo Borsellino muore lasciando la moglie e tre figli. Dopo la strage di Capaci, Borsellino aveva capito che presto anche per lui sarebbe arrivato il momento del “silenzio indotto”: decide così di allontanare i propri cari e continua il suo lavoro. Quotidianità alterata, la sua e quella dei familiari, chi rinuncia alla figura del padre chi a quella del marito, chi, ad entrambe. E lo Stato? Lo Stato afferma che non ha sofferto dal punto di vista psicologico (???). Fortuna che “l’arbitro che s’assise in mezzo a loro” ha riconosciuto il dolore della consapevolezza di saper di dover morire, e l’importanza della famiglia, quella famiglia che, silenziosa, accompagna le scelte difficili dei propri cari, quella famiglia che combatte al fianco del parente perché ha degli ideali, quella famiglia che vuole ancora credere nella Giustizia…

Speriamo che questo principio sia esteso anche a tutti coloro che, seppur meno famosi hanno vissuto la stessa esperienza, mi riferisco alle altre famiglie, agli altri mariti, mogli padri e madri persi, a tutti colori che, indipendentemente dalla propria posizione sociale, dal proprio lavoro, per cause terze sono costretti a rinunciare, a dover far altro, sono costretti a modificare la propria esistenza.

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