Abstract: Il presente contributo propone un’attenta disamina di quali sono le procedure, i diritti ed i doveri dei professionisti, nello specifico gli psicologi, chiamati ad assolvere il compito di Consulente Tecnico d’Ufficio e Consulente Tecnico di Parte. Tali figure professionali sono previste dal Codice di Procedura Civile (Libro I – Disposizioni Generali – Capo III – Art. 61/64) e dal Codice di Procedura Penale (Libro III – Parte I – Prove – Titolo II – Mezzi di prova – Capo IV – Perizia – Art. 220/233). Al fine di meglio ottemperare al proprio mandato professionale è indispensabile che lo psicologo forense abbia nozioni dei passaggi tecnico-burocratici che caratterizzano l’iter della consulenza e del processo all’interno del quale la sua professionalità è chiamata ad intervenire.
Civile
Nonostante spesso e volentieri si faccia riferimento, con il termine mobbing a vessazioni poste in essere sul posto di lavoro, possiamo allargare tale concetto anche al contesto familiare. Concordo, infatti, con la cerchia degli studiosi che, partendo dal significato etimologico del temine, ne ravvedono somiglianze tra ciò che accade nel posto di lavoro come azione mobbizzante e ciò che accade nell’ambiente familiare nei casi di separazione.
Come sappiamo il mobbing consiste in un “rendere la vita impossibile all’altro” e pertanto, una tale situazione non infrequentemente si riscontra nei casi di separazione e divorzio.
Secondo G. Giordano, il mobbing genitoriale “consta dell’adozione da parte di un genitore, separato o in via di separazione dall’altro genitore, di comportamenti aggressivi preordinati e/o comunque finalizzati ad impedire all’altro genitore, attraverso il terrore psicologico, l’umiliazione e il discreto familiari, sociali, legali, l’esercizio della propria genitorialità, svilendo e/o distruggendo la sua relazione con i figli, impedendogli di esprimerla socialmente e legalmente, intromettendosi nella sua vita privata”.
Tra le categorie che servono per discriminare il mobbing familiare due appartengono all’estrinsecazione della propria genitorialità:
-
Mobbizzazione della relazione genitore-figlio;
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Mobizzazione dell’esprimersi sociale e legale della genitorialità;
Le azioni poste in essere sono quindi: sabotaggi delle frequentazioni con il figlio, esclusione dai processi decisionali che riguardano il minore (tipo scuola, visite mediche etc.,) minacce, campagna di denigrazione e delegittimazione familiare e sociale, mettere in giro voci diffamatorie sul conto del genitore mobbizzato, farlo oggetto di denunce e aggressioni legali varie etc..
Una sentenza in tema di mobbing genitoriale è quella della Corte di Appello di Torino del 21 febbraio 2001, nella quale si legge “I comportamenti dello S. (il marito) erano irriguardosi e di non riconoscimento della partner: lo S. additava ai parenti ed amici la moglie come persona rifiutata e non riconosciuta, sia come compagna che sul piano della gradevolezza estetica, esternando anche valutazioni negative sulle modeste condizioni economiche della sua famiglia d’origine offendendola non solo in privato ma anche davanti agli amici, affermando pubblicamente che avrebbe voluto una donna diversa e assumendo nei suoi confronti atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi, con i quali la invitava ripetutamente ed espressamente ad andarsene di casa” e che “al rifiuto, da parte del marito, di ogni cooperazione, accompagnato dalla esternazione reiterata di giudizi offensivi, ingiustamente denigratori e svalutanti nell’ambito del nucleo parentale ed amicale, nonché delle insistenti pressioni – fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing – con cui lo S. invitava reiteratamente la moglie ad andarsene”, la Corte conclude che al marito “deve essere ascritta la responsabilità esclusiva della separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri (diversi da quelli di ordine patrimoniale) che derivano dal matrimonio, in particolare modo al dovere di correttezza e fedeltà”.
In qualche modo possiamo dire che il mobbing genitoriale è l’anticamera per lo sviluppo della P.A.S. od ancora che la PAS sia il grado estremo della realizzazione del mobbing genitoriale.
Come ben sappiamo la PAS arriva a distruggere totalmente il rapporto padre-figli:
“Sul futuro del minore alienato pende poi il rischio di andare incontro a gravi disagi psicologico e/o comportamentali socialmente devianti specie se si considera che il genitore più frequentemente alienato è il padre, e che le statistiche sul disagio giovanile sono, al proposito, eloquenti. Non ha avuto contatti significativi con il padre: il 63% dei giovani suicidi, l’85% dei detenuti per lunga condanna, l 72% dei giovani omicidi, il 60% degli uomini condannati per violenza carnale, il 70% dei detenuti per lunghe condanne pure, il 90% dei “senza fissa dimora”, il 70% dei giovani avviati ai riformatori. Figli che vivono in assenza di contatti con il padre, hanno un rischio quaranta volte più alto, rispetto a quelli vissuti con il padre, di essere vittime di abuso sessuali, il 69% dei bambini abusati è vissuto senza contatti significativi con il padre; i “fatherless” costituiscono, infine, la categoria più rappresentata tra i depressi (dati governativi statunitensi, raccolti da Claudio Ris, Il padre assente l’inaccettabile”1.
1 Fonte www.psychomedia.it Contributo di G. Giordano;
La complementarietà genitoriale nell’educazione dei figli in caso di separazione e divorzio: il ruolo del padre nella crescita del minore
Nel nostro ordinamento, l’art. 30 della Costituzione recita: “E’ dovere e diritto del genitore mantenere, educare e istruire i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”.
Se da anni i legislatori cercano di contenere le molteplici problematiche della famiglia, non dobbiamo perdere di vista che comunque la famiglia nasce, si sviluppa, si concretizza e si modifica all’interno di dinamiche relazionali. Le statistiche degli ultimi anni evidenziano un numero crescente di separazioni accompagnate da difficoltà, conflitti con la conseguente necessità di occuparsi di questi eventi avvalendosi di approcci multidisciplinari (sociali, culturali e psicologici, etc.).
Con il termine “Bigenitorialità” nel 1989 la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia definisce il minore come soggetto di diritti e non solo quale destinatario di protezione e tutela; in tal senso viene ribadito e ufficializzato il fatto che i figli hanno diritto di ricevere affetto, educazione e cure da entrambi i genitori. Succede però che l’intreccio tra i legami di coniugalità e di genitorialità venga messo a dura prova in caso di separazioni e divorzi, quando, l’esercizio delle funzioni genitoriali, critico alle volte anche nelle famiglie unite, deve essere gestito modificato e rinnovato.
Nel considerare gli effetti della vicenda separativa occorre evidenziare che l’elemento patologizzante non è la separazione in sé, ma il tipo e la qualità di relazione che caratterizza le coppie che si separano e che investe, di conseguenza, i minori. Da anni la ricerca psicologica in ambito di separazioni prova ad evidenziare che il fattore preoccupante è connesso alla perdita di un genitore, spesso del padre, e, di conseguenza, alla deprivazione delle funzioni genitoriali che gli competono.
All’interno del nucleo familiare il ruolo della figura materna è sempre stato riconosciuto come inconfutabile1, la funzione della figura paterna, al contrario, ha subito progressivi mutamenti a secondo del contesto storico e socio-culturale con il quale si è dovuta confrontare.
La psicologia dello sviluppo infantile ha posto molta attenzione sulle relazioni interpersonali che si instaurano tra genitori e figli tuttavia, forse per complessità metodologica, ha privilegiato l’osservazione di relazioni diadiche (madre-figlio, padre-figlio) a discapito della relazione triadica che definisce e caratterizza la famiglia. Stern (1992) con le sue ricerche ha dimostrato che la relazione madre-figlio e padre-figlio è fortemente influenzata dalle dinamiche della coppia genitoriale. Ad esempio, lo stesso autore, afferma che una madre può essere molto competente quando è sola con il bambino o in presenza di altre figure per lei significative (ad esempio la propria madre), e può non esserlo in presenza del marito con il quale ha attivo un conflitto. Pertanto egli conclude che una relazione conflittuale tra genitori influenza negativamente anche il rapporto padre-figlio.
La dinamica sopra brevemente descritta, è da tradursi anche in positivo nel momento in cui un genitore poco competente può acquisire maggiori capacità grazie a stimoli provenienti da un’adeguata collaborazione coniugale.
La figura paterna ricopre importanti funzioni fin dai primi mesi di vita dei figli ma il suo ruolo va osservato all’interno della triade: la qualità della relazione dei genitori è fondamentale per consentire alla madre e al bambino di svolgere adeguatamente il proprio compito evolutivo. Con la prima infanzia e con l’adolescenza le relazioni dirette madre-figlio padre-figlio assumono la stessa importanza (F. Baldoni, 2005). Come sottolinea Bollea (1999) nei primi anni di vita il bambino porta avanti il suo continuo lavoro di adattamento al mondo esterno prevalentemente attraverso il padre, sia nell’imitarlo, sia nell’accettare o meno le imposizioni. L’instaurarsi di una relazione significativa, sicura e costante con il padre permette un adeguato sviluppo sociale ed emotivo dei figli. Caratteristica fondamentale della funzione paterna è proprio quella di favorire il processo di separazione dalla madre e introdurre il figlio, attraverso il linguaggio logico, al pensiero razionale e al rispetto delle regole nell’universo delle relazioni sociali. Al padre è simbolicamente affidato il compito di traghettare gradualmente il figlio dal territorio materno a quello della società favorendo l’emancipazione dall’infanzia e il suo ingresso nel mondo adulto. In altre parole è il padre che contiene e progressivamente delimita quel rapporto stretto e totalizzante esistente tra madre e figlio. Ogni genitore ha un proprio ruolo e solo insieme essi si integrano e si completano2. Il padre in quanto portatore di un modello responsabile e capace di assumere decisioni, costituisce una figura determinante nella prevenzione di eventuali comportamenti antisociali; la madre, in quanto figura portatrice di affetto e fiducia, è fondamentale per favorire il dialogo e la stima di sé. Il padre, inoltre, favorisce l’evoluzione dell’affettività adulta, in quanto è proprio l’amore paterno, non scontato ma condizionato, che va conquistato e quindi richiede uno sforzo che si avvicina all’amore maturo. Il rapporto padre-figlio che si delinea sin dai primissimi anni di vita, modellerà l’immagine che il figlio avrà di sé stesso e degli altri alimentando la dimensione profonda dei suoi sentimenti. In età scolare la mancanza di un solido rapporto con il padre, determina forti vissuti di ansia nel bambino soprattutto di fronte ad una situazione nuova come quella scolastica, dove deve rapportarsi con figure nuove e con nuove autorità. La valenza della figura patera sembra assumere un ruolo decisivo anche tra i fattori del comportamento delinquenziale degli adolescenti, soprattutto in relazione al fatto che, nella nostra società, il padre costituisce l’istanza morale fondamentale per la formazione di una “coscienza etico-sociale” (Vegetti Finzi S., A.M. Battistin 1996). L’opinione comune è che oggi il padre stia cercando di trovare altre dimensioni nei vari ambiti concernenti l’educazione dei figli e queste avvalorano una sua più rilevante partecipazione. Alcuni padri dimostrano notevoli capacità di provvedere anche a figli molto piccoli. Negli ultimi anni si è assistito quindi alla nascita del cosiddetto “padre partecipante”, cioè colui che si allontana dalla figura di padre padrone per creare con i figli una relazione fondata sull’affettività e sulla condivisione. Ne consegue una figura paterna che mantiene le sue prerogative maschili ma che si dimostra anche disponibile a prendersi cura dei propri figli in modo autonomo e responsabile (Andolfi, 2001).
L’importanza educativa dei padri sembra essere stata per lungo tempo sottovalutata dal sistema giudiziario, per cui, tranne nei casi di malattia psichiatrica, uso di droga e presenza di una relazione extraconiugale, la madre veniva automaticamente considerata la depositaria principale della tutela del minore3. Già nel 1986 ad un convegno nazionale sulla paternità M. Quilici dichiarava “I padri sono cambiati ma i giudici non se ne sono accorti”. Solamente nel 2006 con l’introduzione dell’articolo 155 della legge 54 viene inserito l’affido condiviso come forma privilegiata da valutare, per cui i Giudici si trovano spesso a prendere in considerazione la possibilità che i figli minori rimangano affidati ad entrambi i genitori. La nuova legge attesta che anche in caso di separazione personale dei genitori i figli hanno diritto di mantenere un rapporto equilibrato con ciascuno di essi e che la potestà genitoriale è esercitata da entrambi. Questo significa che, almeno formalmente, il ruolo educativo del padre è considerato indispensabile per la crescita dei figli. La paternità e la maternità, anche se costruite in modo diverso, vengono comunque messe a dura prova dalla separazione coniugale4, è bene quindi cercare di capire quali sono le dinamiche che coinvolgono la famiglia in questo contesto. Gli studi di Emilia Dowling e Gill Barnes (2004), di recente attuazione, partono dal presupposto che non esiste nessuna relazione fissa tra il genere di un genitore e ciò che è in grado di fare o non fare per i figli. Gli stessi autori, nel campione di famiglie separate che hanno partecipato alle loro ricerche, evidenziano una vasta gamma di capacità negli uomini nell’essere padri. Uno dei loro progetti di ricerca sottolinea che sono molti i fattori che influenzano lo sviluppo dei ruoli paterni dopo il divorzio. Ad esempio, la capacità degli uomini di essere flessibili nell’organizzazione e nella cura dei figli è correlata alla loro capacità di assumere modalità genitoriali precedentemente definite come appartenenti alle donne, inoltre l’avere avuto un buon padre e un continuo sostegno da parte di uomini nella stessa situazione, fa un’enorme differenza. Alcuni studi sostengono che le donne forniscono tuttora il contesto in cui gli uomini apprendono le competenze genitoriali, ed è probabile che, questo fattore costituisca solo uno degli aspetti che portano ad un’alta incidenza di abbandono del contatto padre-figli nei primi due anni dopo il divorzio. Quello che alcuni padri fanno è quasi costantemente condiviso o dipendente dai suggerimenti della partner, ne risulta che il comportamento paterno è inevitabilmente legato alla condizione di coppia. Va di conseguenza che, quando la coppia è in crisi, il padre può sentirsi insicuro su come comportarsi. Secondo la Dowling i padri, in assenza delle loro ex mogli, hanno concezioni molto diverse sul tempo da dedicare ai figli per sentirsi competenti e fiduciosi come genitori, e questo è connesso al grado in cui la madre permette loro di sviluppare il proprio stile genitoriale dopo il divorzio, indipendente da ciò che lei stessa considera il comportamento “corretto”. Per alcuni padri che non sono stati in grado di sviluppare competenze adeguate, essere criticati dalla ex moglie crea un grave stress. Il primo anno dopo il divorzio può costituire un periodo particolarmente importante per ristrutturare i legami genitoriali e per stabilire la modalità di coinvolgimento del padre. Alta conflittualità e bassa cooperazione in questo periodo, infatti, possono interferire con lo sviluppo di nuove modalità genitoriali.
Il fatto che un padre non viva con i figli non significa che egli non giochi un ruolo attivo nella loro vita o nella mente di questi. Per alcuni bambini, che trovano difficile assimilare l’assenza quotidiana del padre, questa assenza può divenire una presenza più forte di quando vivevano insieme
L’evento separazione mette quind in pericolo un intero sistema di relazioni e di ruoli ben stabiliti, e molto difficile risulta quindi essere il ripristino degli equilibri.
Ogni transizione è un passaggio da una condizione data a una condizione nuova che ripropone ai familiari la necessità di rielaborare le relazioni e dare loro nuovi significati alla luce delle mutate condizioni (Andolfi, 1999). Appare evidente il collegamento nella trasformazione del ruolo di padre, che con l’evento separazione si trova a dover far fronte ad innumerevoli cambiamenti nella forma e nella sostanza, e la necessità di creare nuove modalità di relazione. In alcuni casi il mantenimento della cogenitorialità è messo a rischio fin dai primi momenti in cui la coppia decide di separarsi, il conflitto coniugale spesso si riflette sulle competenze genitoriali, e i figli si trovano ad essere triangolati in giochi di potere e di vendetta. In questo senso va considerato che i genitori, nel rivolgersi ad un istituzione esterna, sono alla ricerca di un contenimento e di un sostegno, che può non risolversi nelle aule dei tribunali, e che una lettura in termini psicologico-relazionali può essere utile per il contenimento del conflitto. Una possibilità parallela a quella giudiziale e particolarmente utile, in alcuni casi, può essere la Mediazione Familiare
La ricerca compiuta da R. Emery, nello Stato della Virginia, negli anni 1999/2000 è un esempio di come, la Mediazione Familiare, possa essere un percorso valido e uno strumento protettivo delle relazioni, in particolare della relazione padre-figlio in seguito alla separazione coniugale.
Alcune separazioni portano nella relazione conflitti cristallizzati e forti battaglie giudiziarie che spesso vengono fatte in nome de quei figli considerati “l’unica ragione di vita”. A tal punto è importante far riferimento ad alcuni contributi scientifici che mirano ad evidenziare le conseguenze della deprivazione della figura paterna, sullo sviluppo psicofisico dei figli.
In Acta Pediatrica 97 (2), 153-158, febbraio 2008 esperti del settore hanno studiato gli effetti del coinvolgimento paterno sul conseguente sviluppo dei figli ottenendo il seguente risultato “L’impegno del padre sembra avere effetti differenti sui risultati desiderabili: riduce la frequenza di problemi comportamentali nei ragazzi, riduce i problemi psicologici nelle giovani donne, migliora lo sviluppo cognitivo, mentre da un lato diluisce la delinquenza e lo svantaggio economico in famiglie dal basso profilo socioeconomico”. Altrettanto interessanti sono le conclusioni alle quali sono giunti i professionisti “E’ evidente l’influenza positiva del coinvolgimento paterno sui risultati sociali, comportamentali e psicologici della prole. Sebbene la letteratura provveda a fornire una definizione solo sufficiente per l’impegno paterno (interazione diretta con il bambino), come una specifica forma di effettivo coinvolgimento paterno, vi è sufficiente conferma per esortare sia i professionisti che i responsabili politici a migliorare le circostanze favorenti il coinvolgimento paterno”. Ed ancora “Negli USA molti studi hanno evidenziato i danni provenienti dall’assenza del padre – o per scelta del genitore o per volontà ostativa della genitrice – e tra questi sottolineerei American Journal of Pubblic Health, num. 84, 1994, Sheline et al., “I ragazzi con padre assente sono a più alto rischio per comportamenti violenti” e Survey on Child Health, 1993 U.S. Department of Health and Human Services “Bambini che vivono senza un contatto con il loro padre biologico hanno il doppio delle probabilità di lasciare la scuola” . Assieme a contributi scientifici che evidenziano, sottolineano ed affermano alla comunità scientifica l’importanza della figura genitoriale paterna, numerosi sono gli studi che partono dall’esclusione della stessa nella vita dei minori per poterne studiare le conseguenze. Anziché, quindi, partire dall’assunto di valutare una correlazione positiva tra impegno paterno e sviluppo del figlio, altri autori studiano gli effetti della deprivazione paterna sui minori. Tali ricerche evidenziano che non solo la deprivazione paterna provoca un grave danno al figlio, ma, soprattutto, che il livello di accudimento con cui un genitore si occupa del figlio è direttamente correlato al grado di realizzazione esistenziale del figlio stesso. Tale concetto è ben espresso dalle parole della famosa psicologa Dionna Thompson “la guerra contro il padre è in realtà una guerra contro i figli; il punto non è semplicemente il diritto dei padri o il diritto delle madri, ma il diritto dei figli di avere due genitori che si occupino attivamente della loro vita”.
Vezzetti in particolare pone l’attenzione sulla Sindrome da alienazione genitoriale (PAS) e i danni da deprivazione genitoriale che essa comporta. Altri autori si sono occupati di tale questione pervenendo a risultati diversi. A tal proposito è interessante citare uno studio pilota di A. Lubrano Lavadera e M. Marasco (2005) dal quale emergono risultati che evidenziano, su alcuni aspetti, una controtendenza rispetto alla maggioranza dei risultati ottenuti da altri ricercatori sull’argomento.
Tali autori hanno confrontato due gruppi di minori di cui il gruppo sperimentale era caratterizzato dalla presenza di PAS, l’altro senza diagnosi di PAS5.
Stando ai risultati, gli autori concludono che non è presente alcuna differenza di genere tra l’essere genitore alienante o alienato, quindi il genitore alienante può essere indistintamente il padre o la madre, fondamentale è piuttosto la variabile genitore affidatario/non affidatario, per cui il genitore alienante è sempre quello affidatario6. Altro dato risultante dalla ricerca riguarda la condizione di disagio psichico vissuta dai minori. Infatti, dai dati del campione, viene evidenziata una condizione di disagio psichico per i minori coinvolti senza che venga registrata alcuna differenza tra quelli con diagnosi di PAS e quelli senza PAS7. Questo indica, secondo gli autori, che la PAS non produce effetti più “dannosi” rispetto a quelli provocati generalmente da separazioni altamente conflittuali. Alla luce dei risultati ottenuti, gli autori, fanno alcune considerazioni in merito che ci vedono concordi8. Tuttavia gli stessi autori evidenziano alcuni limiti della ricerca, come l’esiguità del campione, che non consente di fare analisi statistiche più complesse, e il fatto che le famiglie appartengono tutte alla stessa popolazione del Lazio, per cui non può essere fatta generalizzazione a livello nazionale.
Tali studi sul ruolo dei padri, sulle conseguenze dell’assenza della figura paterna, sulle dinamiche conscie e inconscie che si sviluppano allorché la coppia coniugale si separa, dovrebbero essere maggiormente incentivati proprio alla luce di un’apertura che deve essere manifestata e applicata anche all’interno delle Aule dei Tribunali. Da qui l’esigenza che il consulente sia consapevole dei limiti delle ricerche ma anche e soprattutto dei giochi di coalizione e triangolazione nel quale si può trovare intrappolato allorché si trova a valutare l’idoneità genitoriale.
Ciò che comunque ci preme evidenziare, in conclusione di questo contributo, è come, nonostante il padre troppo spesso sia identificato in colui che deve predisporre un assegno mensile, la sua funzione educativa e genitoriale deve essere tutelata a discapito, altrimenti, di un sano sviluppo psicofisico del minore che, come facilmente desumibile, deve essere interesse di tutta la società.
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1 Non di rado ciò è giustificato, soprattutto nei primi mesi di vita del minore in funzione dell’allattamento o dello svezzamento non riconoscendo che tali momenti sono importanti ma che non coinvolgono la madre per l’intera durata della giornata (tra un allattamento e l’altro, ad esempio senza voler essere riduttivi, il minore potrebbe godere benissimo della figura paterna per un cambio di pannolino o altro così come accade solitamente nelle famiglie unite). Nondimeno esistono numerose ricerche che evidenziano la necessità che la madre possa essere aiutata nelle funzioni di accudimento del minore onde evitare l’insorgenza di patologie quali, ad esempio, la depressione post-partum;
2 Discorso a se stante deve essere fatto quando uno dei due genitori decede. In tale frangente l’assenza del genitore è meglio elaborata e, non di rado, familiari vicini al genitore sopravissuto si attivano per colmare il vuoto mancante. Si rimanda a Pezzuolo S., “Questi paradossi dei padri” in http://www.personaedanno.it/cms/data/articoli/017891.aspx?abstract=true.
Un genitore assente per conflitto coniugale, mobbing genitoriale o sindrome di alienazione genitoriale fanno incorrere il minore in conflitti di lealtà che non di rado possono sfociare in problematiche psicologiche;
3 A tale proposito rifacendosi ai dati ISTAT 2003, prima dell’entrata in vigore della legge sull’affido condiviso, la panoramica era quella dell’affidamento esclusivo alla madre (83,9%), affidamento congiunto (11,9%), affidamento al padre (3,8%) nelle separazioni. Nei divorzi il panorama cambiava di poco affidamento al padre (5,7%), affidamento alla madre (83,8%), affidamento congiunto (9,8%).
4 La separazione è un evento doloroso sia per chi lo subisce sia per chi lo impone, difficilmente una coppia decide serenamente di abbandonare il progetto familiare, spesso la decisione è accompagnata da trascorsi altamente conflittuali. In tali circostanze risulta difficile per la coppia tenere separate le competenze genitoriali dal fallimento coniugale.
5 Le famiglie esaminate per questo raffronto sono state 12 per ciascun gruppo;
6 Tale informazione potrebbe essere spiegata alla luce del maggior periodo di tempo che il genitore affidatario trascorre con il minore. Ricordiamo che la ricerca risale al 2005 quindi ancora non era entrata in vigore la legge sull’affido condiviso;
7 Non è stato però reso esplicito dagli autori la metodologia d’indagine per verificare la presenza di disagio;
8 Gli effetti secondo gli autori della ricerca potrebbero rendersi manifesti a lungo termine (in merito a ciò ad esempio rimandiamo anche ai contributo della Baker), nelle situazioni PAS si registrano maggiormente problemi di identità e sviluppo di un falso Sé, i minori PAS presentano un comportamento manipolativo, tendono a distorcere la realtà familiare e ad avere uno scarso rispetto per le autorità etc.;
Abstract: Nell’ambito della testimonianza del minore importante, per i professionisti che operano in tale settore, è stata e, lo è, la sentenza della Cassazione Penale sez. III ottobre 1997 n. 8962 nota come sentenza Ruggeri dove, a fronte di un’attenta analisi, sono state prese in considerazione le raccomandazioni che la psicologia forense e altre discipline implicate da tempo andavano sostenendo sulla testimonianza. Ancora, importante passo in avanti è stato fatto con la sentenza della Cassazione Penale Sez. III n. 37147/07 nella quale enfasi è stata posta su molti elementi tra i quali, significativo, è stato il riconoscimento dato alla Carta di Noto per ciò che concerne la genuinità delle dichiarazioni del minore.
La Corte Costituzionale con sentenza n. 372/94 ha ritenuto risarcibile il danno biologico psichico subito da un prossimo congiunto a seguito della morte di un familiare vittima di un fatto illecito altrui, allorquando “… il danno alla salute è qui il momento terminale di un processo originato dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo, e che in persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, etc.), anziché esaurirsi in un patema d’animo o in uno stato d’angoscia transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente alle cui conseguenze, in termini di qualità personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va commisurato il risarcimento”. Detto in altri termini, tale affermazione ammette che, assieme al danno morale, consistente in un patema d’animo transeunte, in persone predisposte può insorgere un danno biologico di tipo psichico permanente o temporaneo derivante dalla perdita di un familiare in conseguenza di un fatto illecito. Difatti, in situazioni normali, l’esperienza del lutto per la perdita di una persona cara è solitamente accompagnata da un sentimento di tristezza e disperazione, apatia etc. ma tale processo rientra una volta che il lutto è stato elaborato.
La Cass. sez. III civ. del 17 gennaio 2008 n. 870 si interroga sul problema
iure hereditatis del danno biologico da morte e quando questo debba essere risarcito in correlazione al tempo di sopravvivenza della vittima del fatto illecito. Infatti, si distingue il caso in cui la morte segue immediatamente l’evento oppure tra l’evento, oggetto di lesioni, e la morte, intercorra un “apprezzabile” lasso di tempo in modo tale che si possa parlare di configurabilità del danno biologico iure hereditatis. Difatti, secondo la Giurisprudenza di massima, l’evento morte non influisce sul bene salute e quindi sulla sua tutela, ma, incide sul bene giuridico vita. Tale assunto non vale se, di contro, intercorre un lasso di tempo “apprezzabile”, tra l’evento lesivo e la conseguente morte, poiché il soggetto subisce una compromissione dell’integrità psico-fisica che si protrae fino alla morte, la quale è riconosciuta come danno biologico trasmissibile agli eredi (il lasso di tempo che permette il riconoscimento agli eredi del danno biologico iure hereditatis non viene stabilito in maniera precisa ma, in questa sentenza non può escludersi in via di principio che sia apprezzabile una sopravvivenza di tre giorni).
Da qui si introduce il concetto del cosiddetto danno iure proprio, cioè il risarcimento del danno biologico agli stretti congiunti di una persona deceduta per effetto dell’illecita condotta altrui, previa, però, la prova di una lesione psico-fisica accertata sulla base di elementi oggettivi (vedi Cass. Civ. Sez. Lav. 22 luglio 2008, n. 20188- Cass. 19 febbraio 2007 n. 3758- Cass. 18 gennaio 2007, n. 1105- Cass. 11 gennaio 2006 n. 212).
La Cass. Sez. Unite Civili, con sentenza n. 26972/08 ha provato ad intervenire su questo punto affermando la liquidazione del danno morale nel caso in cui, nonostante sia passato un breve lasso do tempo tra l’evento e la morte, la persona sia rimasta lucida in attesa consapevole della fine. In tale situazione ciò che deve essere risarcito non è il danno biologico (non è detto che la sofferenza abbia il tempo di trasformasi in patologia…) ma il danno morale nella nuova accezione proposta dalla medesima sentenza. Su questo punto si potrebbero aprire questioni e dibattiti ad esempio chiedersi come si dovrebbe agire se la persona fosse priva di sensi, indotta in coma farmacologico etc. ma non è questa discussione l’obiettivo del seguente contributo.
Diventa fondamentale, nella clinica, secondo De Fazio et al.1, operare una prima distinzione tra danno da morte e danno da lutto. A seguito della morte di un congiunto o di un familiare i danni biologici sono essenzialmente i due sopraccitati ma, tra loro, devono essere nettamente distinti e differenziati. Difatti il danno da lutto consiste in una psicopatologia dell’elaborazione del lutto distinguendosi dal danno da morte che, invece, si esplica attraverso un’invalidità temporanea e, in casi eccezionali, in una invalidità permanente determinata dalla perdita dell’oggetto d’amore. Le due tipologie di danno si collocano su due livelli diversi. Mentre il secondo consiste in “… alterazioni permanenti sul piano psichico ed emozionale che conseguono ad effettive difficoltà del “lavoro del lutto”. Intendendo con ciò far riferimento alle difficoltà dell’elaborazione del lutto, o, talvolta, alla mancata elaborazione o del tutto alla negazione del lutto”2, il primo consiste in una reazione depressiva caratterizzata da sofferenze e dolori per una perdita che viene vissuta come angosciante che, solo se diventa clinicamente significativa, può sfociare in un danno da lutto. In sintesi, il danno biologico da morte, consiste in un danno psichico determinato dalla lesione del diritto alla salute psichica subito dagli stretti congiunti a seguito della morte di un familiare per un fatto illecito di terzi.
Ad oggi si intende per “danno da lutto” “… un pregiudizio subito dai prossimi congiunti per la perdita di un familiare a seguito del fatto illecito di un terzo, originariamente qualificato da un’autorevole dottrina come “danno alla serenità familiare”3, “… l’evento morte non determina solo la fine della vita della vittima, quindi, un “danno da perdita del diritto alla vita”, o comunemente definito “danno tanatologico”, ma causa, al contempo, l’estinzione di un rapporto familiare con i congiunti…”4.
L’esperienza del lutto è un’esperienza complessa che comporta sempre un cambiamento organizzativo nella vita della vittima secondaria, basta pensare ad un rapporto esistente che adesso non esiste più. Spesso a tale processo deve essere accompagnata una ridefinzione di ruoli, quali quello di moglie, figlio/a, genitore, in quanto le relazioni definite e realizzate all’interno di tale relazione vengono a mancare mettendo in crisi, in alcuni casi, la stessa identità di chi vive l’esperienza della perdita.
Corte e Buzzi5 sottolineano come sia fondamentale in sede di accertamento da danno biologico da lutto raccogliere i dati anamnestici, ed indagare accuratamente il rapporto tra la vittima primaria e la vittima secondaria, facendo attenzione alle modalità di “gestione dei rapporti sociali, familiari, affettivi e sessuali” e alle “autonome capacità di cura della propria persona e dei propri interessi”. Importante, quando ci si accinge a fare tale valutazione, è analizzare le modalità di elaborazione del lutto che hanno portato, un processo di natura fisiologica, ad essere interrotto o complicato, determinando, così, una reazione definibile come psicopatologica, cioè, una “reazione patologica da lutto”. Tale processo dipenderà si, dalla relazione esistente tra le due vittime ma anche, non di meno, dall’ “assetto personologico” del soggetto stesso e dalle sue modalità di elaborazione intra-psichica della perdita.
Brondolo e Marigliano propongono la seguente procedura di valutazione del danno:
-
accurata indagine anamnestico-funzionale;
-
valutazione dell’intensità psico-stressante dell’evento luttuoso;
-
esame obiettivo psichico;
-
uso di strumenti testistici standardizzati per formulare un inquadramento diagnostico verificabile, ripetibile e comunicabile, in modo tale da essere universalmente interpretabile in maniera consimile;
-
parametrazione clinica dell’entità della minorazione psichica;
-
analisi ponderata dei possibili elementi di connessione causale/concausale dei disturbi psichici/somatici con la preesistente struttura di base e/o con l’evento luttoso;
-
acclaramento dell’inemendabilità/permanenza dei disturbi medesimi;
Per ciò che riguarda il primo punto è fondamentale quindi, analizzare “… le covalenze affettive che legavano il superstite al defunto la cui intensità (o lassità) costituisce evidentemente il primo elemento atto a suffragare, o, a mettere in dubbio la plausibilità di una reazione psico-patologica alla perdita relazionale”, “si tratta dunque di indagare le caratteristiche quali-quantitative dei rapporti psico-emotivi effettivamente intercorsi tra il defunto e il sedicente danneggiato dalla perdita del medesimo, aprendo un capitolo che potremmo definire “anamnesi relazionale”. In sintesi è necessario indagare “…in quella peculiare situazione di anomala interruzione del rapporto con il defunto e i meccanismi psicodinamici attraverso i quali tale interruzione, colpendo quell’individuo in quel determinato modo e momento, può averne destabilizzato l’assetto psico-comportamentale”6.
Nel caso dell’indagine psicodiagnostica è utile avvalersi di strumenti psicodiagnostici standardizzati tra cui l’M.M.P.I.-2. Esso è il test più usato e riconosciuto nell’ambito della letteratura scientifica anche perché attraverso l’analisi delle scale di simulazione è possibile effettuare un’indagine accurata e corretta.
Gli autori fanno, inoltre, riferimento a due tipi possibili di reazione da lutto patologico:
Quadri sintomalogici lievi: caratterizzati da occasionali deficit dell’attenzione e della concentrazione, labilità emotiva con transitori cedimenti depressivi dell’umore o transeunti crisi d’ansia; alterazioni del sonno; inappetenza; difficoltà relazionali e sociali, calo delle prestazioni lavorative etc.;
Quadri sintomatologici gravi: caratterizzati da ricordi pervasivi e ricorrenti della persona deceduta; perdita degli interessi e della cura della propria persona; anomalie della condotta in ambiente domestico; alterazioni comportamentali determinanti scollamento sociale; idee suicidarie; diminuzione del senso di realtà e delle capacità critiche etc.;
Altri autori (Parkes, Raphael et al.) si sono concentrati sui fattori che possono influenzare l’evoluzione di un lutto complicato. Tra questi, in linea generale, ritroviamo:
-
modalità della morte (una morte improvvisa ed inaspettata impedisce al familiare di abituarsi all’idea stessa della perdita);
-
intensità della relazione con il defunto;
-
precedenti esperienze di perdita di persone significative;
-
precedenti disturbi psichici, di solito a sfondo depressivo ed ansioso;
Per ciò che concerne la categoria nosografia proposta dal DSM-IV-TR nello specificare il “lutto” vi ritroviamo:
-
sentimenti di colpa riguardante cose diverse dalle azioni fatte o non fatte dal soggetto sopravissuto al momento della morte;
-
pensieri di morte diversi dal sentimento del soggetto sopravissuto, come, ad esempio, che sarebbe stato meglio se fosse morto o che avrebbe dovuto morire con la persona deceduta;
-
pensieri eccessivi e morbosi di inutilità;
-
marcato rallentamento psico-motorio;
-
prolungata e intensa compromissione del funzionamento;
-
esperienze allucinatorie diverse dal pensare di udire la voce o di vedere fuggevolmente l’immagine della persona deceduta.
Il lutto non è considerato una condizione di malattia ma viene raggruppata all’interno di “altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica”. Spesso al lutto vengono ricollegate diagnosi quali quelle del disturbo dell’adattamento, disturbo depressivo maggiore o disturbo post traumatico da stress (nei casi più gravi), pertanto, dal momento che la letteratura medico-legale riconosce, come osservato in precedenza, un danno da lutto, ed il contesto di risarcimento prevede in qualche modo che la morte segua ad un evento traumatico, potremmo ipotizzare la necessità di considerare il lutto complicato come una variante del disturbo dell’adattamento cronico offrendogli un ruolo ed un riconoscimento particolare anche in sede di valutazione del danno.
Non sempre, però, nel caso di morte di un familiare per un fatto illecito di terzi, e quindi di danno da lutto, le dimensioni del danno possono essere ricomprese entro categorie nosografiche, ma accanto alla dimensione biologica può trovare spazio la cosiddetta dimensione esistenziale “… consistente nella modificazione peggiorativa della loro personalità e nel conseguente, forzoso sconvolgimento delle loro abitudini di vita e dei loro rapporti relazionali all’interno ed all’esterno del nucleo familiare colpito”7.
A seguito della Sent. Sez. Unite Civili, n. 26972/08, non si può più parlare di danno esistenziale ma, tale categoria di dano, è stata ricondotta al danno morale, all’interno del quale, solo per fini descrittivi, si parla di pregiudizi di tipo esistenziale.
Per ciò che concerne l’evento oggetto di causa, morte di un familiare, ci rifacciamo, oltre che all’art. 2, anche agli artt. 29 e 30 della Costituzione, che tutelano il riconoscimento dei “diritti della famiglia” intesi non solo come tutela della persona nell’ambito del suo nucleo, ma anche come modalità di realizzazione della vita dell’individuo all’interno della famiglia stessa in tutti i suoi multiformi aspetti (affetti, reciproca solidarietà, “inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzative della persona umana nell’ambito della famiglia” Cass. 30 ottobre 2007 n. 22884).
Nel caso del pregiudizio esistenziale da morte o da lutto siamo di fronte a “ripercussioni relazionali di segno negativo”; a diventare protagonista è quel ristrutturare la propria vita, quel non poter far più, quell’impedimento a svolgere le normali attività quotidiane etc. Tale modificazione peggiorativa può essere così descritta “… si obietivizza socialmente nella negativa incidenza nel suo modo di rapportarsi con gli altri, sia all’interno del nucleo familiare sia all’esterno del medesimo, nell’ambito dei comuni rapporti della vita di relazione. E ciò in conseguenza della privazione (oltre che di quello materiale) del rapporto personale con lo stesso congiunto nel suo essenziale aspetto affettivo o di assistenza morale (cura, amore), cui ciascun componente del nucleo familiare ha diritto nei confronti dell’altro”8, in tutto ciò, procede la Pace commentando la Sentenza “… l’elemento materiale della coabitazione, pur determinando la condivisone di una quotidianità, non può, di per sé, accrescere o affievolire quel sentimento, quella comunione spirituale che si fonda essenzialmente sullo stretto vincolo parentale…”.
Da qui possiamo facilmente desumere come l’attenzione ai pregiudizi di tipo esistenziale a fronte della perdita di una persona cara non possono e non debbono non essere presi in considerazione alla luce sia della nuova giurisprudenza sia di quella professionalità che come esperti non dobbiamo mai dimenticare. Inoltre sarebbe auspicabile ritrovare anche nel DSM-IV una maggiore attenzione a livello nosografico-clinico di una sintomatologia riconducibile al lutto, in quanto il lutto è “… tenere a bada l’insopportabile condizione di assenza e di solitudine che domina la vita presente. Il lutto è essenzialmente doloroso sentimento del presente, oppure struggente desiderio dell’assente”9.
Non che il riconoscimento del danno da lutto possa affievolire il dolore di un padre per un figlio, di una sorella per un fratello etc. ma semplicemente può almeno sembrare di avere fatto “giustizia” per un dolore che comunque non avrà mai un prezzo.
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1 De Fazio F., Maselli V., Donini W., Bergonzini C., “Il danno da lutto”, Jura Medica, 3, 2002, Anno XV.
2 Ibidem
3 Pace L., Il danno da lutto, Giust. Civ., 5, 1098, 2007.
4 Ibidem.
5 Corte F., Buzzi F., “Il danno biologico da lutto: metodologia psico-diagnostica medico-legale”. Riv. It. Med. Leg. XXII, 2000.
6 Ibidem
7 http://www.altalex.com/index.php?idnot=41928;
8 Cass. Sez. III civ. 19 gennaio 2007, n. 1203.
9 Bianchi A. (a cura di), “La valutazione neuropsicologica del danno psichico ed esistenziale”, CEDAM, Padova, 2005
Valutazione del danno esistenziale. Una nuova proposta la S.V.A.R.P. II (Scala di Valutazione delle Attività Realizzatrici della Persona)
A seguito della nascita della nuova categoria del danno esistenziale i professionisti in ambito peritale hanno dovuto prendere atto della mancanza di uno strumento adeguato alla sua valutazione. Infatti, come si può calcolare un danno che lede i valori inerenti la persona1? E come porsi di fronte al problema della prova del danno esistenziale?
Per ciò che concerne il nuovo codice delle Assicurazioni il problema risulta limitato se il soggetto preso in esame riporta un danno biologico. Esso, infatti, presuppone, di per sé, l’esistenza di un danno esistenziale ma, nel caso in cui un soggetto non subisca una lesione dell’integrità psico-fisica ma “solo” una “… limitazione alle quotidiane attività realizzatrici” (danno esistenziale non biologico) come comportarsi? In altre parole, come fare a quantificare un “non poter più fare” o “un dover compiere altrimenti”? Ancora, come poter calcolare un’alterazione peggiorativa nelle abitudini di vita e, quindi, nella quotidianità della persona?
Da qui l’esigenza di sviluppare una nuova e corretta metodologia d’indagine, che non trascuri l’individualità del soggetto in esame e, che, sia in grado di fornire alla giurisprudenza una corretta lettura della consulenza tecnica peritale e una stima adeguata del danno.
Gli strumenti al momento presenti in letteratura (ad esempio l’SF-36) non sembrano, a mio parere, idonei a valutare un’alterazione di per sé intrinseca nella definizione stessa di danno esistenziale; ciò non per problemi metodologici o di standardizzazione, ma per una visione troppo “medicalizzata” del problema.
Il danno esistenziale non è e non vuole essere una patologia organica o psicologica, ma vuole essere riconosciuto in maniera prioritaria ed in piena autonomia come “un poter più fare od un fare altrimenti” in senso lato.
Da qui cresce l’esigenza della costruzione della S.V.A.R.P. II (Scala di Valutazione delle Attività Realizzatrici della Persona). Tale strumento deriva dalla sperimentazione della S.V.A.R.P. I.
Il nome stesso che, assieme al co-autore Dott. Angelo Bianchi3 abbiamo dato al questionario, la dice lunga su quello che era il nostro obiettivo finale, su ciò che volevamo trovare e su come, quindi, dovevamo ragionare.
Il test si sviluppa sulla base di materiale presente in letteratura in tema di qualità della vita e di benessere psicosociale, associato a temi che concernono una corretta valutazione neuropsicologica del danno4, per adattarsi alle esigenze forensi di stima e quantificazione. La S.V.A.R.P., quindi, ha come obiettivo la descrizione e la quantificazione delle conseguenze di un evento negativo sull’insieme delle attività realizzatrici della persona esaminata, cioè sulla sua vita quotidiana e sull’insieme dei suoi rapporti e delle sue relazioni sociali. Come tale, si applica sia alle conseguenze negative derivanti da un’eventuale lesione dell’integrità psicofisica (c.d. Componente dinamico-relazionale del danno biologico, così come definito dagli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni private), sia alle compromissioni derivanti dalla lesione di eventuali altri diritti od interessi della persona, diversi dalla salute, purché considerati meritevoli di tutela giuridica.
Lo strumento consiste in un’intervista semi-strutturata con il soggetto che viene guidato dall’esaminatore in una esplorazione sistematica ed approfondita di ogni singola attività della vita quotidiana. Come per l’M.M.P.I.-2 (Minnesota Multiphasic Personality Inventory -2), la sorgente primaria dei dati è l’autodescrizione del soggetto (self-report). Diventa centrale comprendere l’alterazione comportamentale di un soggetto in relazione alle caratteristiche di personalità dello stesso, l’importanza che per lui assume l’interesse violato all’interno della sua vita e della sua storia personale.
Lo strumento:
Lo strumento, come detto, sopra consiste in una intervista semi-strutturata che valuta un massimo di 51 attività realizzatrici suddivise in cinque aree5 identificate, per maggiore semplicità, con le prime cinque lettere dell’alfabeto:
Area A: Area Biologico-Sussistenziale;
Area B: Area Relazioni Familiari ed Affettive;
Area C: Area Lavoro/Area Scolastica;
Area D: Area Sociale;
Area E: Area Svago e Sviluppo Personale.
La S.V.A.R.P. II, così come la versione che la precede, presuppone l’esistenza di due protocolli, uno per l’intervista con il periziando, l’altro per una valutazione da parte dell’esaminatore.
Ipotesi:
L’ipotesi di partenza è che il danno esistenziale può essere calcolato sulla base di ragionamenti statistici arrivando, così, ad ottenere una percentuale attraverso un test che, seppur standardizzato, tiene conto dell’individualità e del contesto di vita del soggetto da testare.
Fase di costruzione dello strumento:
Una volta individuate le attività realizzatrici considerate importanti si è proceduto alla valutazione della comprensione linguistica tramite l’inchiesta con soggetti che avevano un livello scolastico basso (3° media). E’ stato predisposto un frontespizio per la raccolta delle informazioni inerenti il soggetto che viene valutato. Oltre ad una breve anamnesi, non dissociabile da un colloquio clinico, viene indagata la rete sociale di inserimento del soggetto, le attività extra-lavorative, lo stato di salute, il tipo di lavoro svolto, il livello di scolarità,etc.. Il protocollo dell’esaminatore consiste in un continuo feed-back tra quanto emerso nel protocollo di somministrazione e le valutazioni effettuate dall’esaminatore. Infatti, per vagliarne la credibilità, il dato soggettivo viene continuamente sottoposto ad un controllo tramite esemplificazioni, approfondimenti, riferimenti a dati e circostanze fattuali, confronti con altre parti dell’intervista stessa o con diversi momenti temporali. Queste tecniche di controllo, finalizzate a stimare il grado di coerenza e di attendibilità del self-report, sono analoghe a quelle utilizzate in ambito psichiatrico forense nella valutazione della credibilità dei sintomi riferiti in contesti di valutazione della capacità d’intendere e di volere6. Ciò che il soggetto riferisce viene utilizzato, prima che per descrivere la realtà, per convalidare l’attendibilità di quanto riferito.
Per valutare quantitativamente le interferenze riferite che hanno inciso sulla vita quotidiana del periziando, è stato costruito un cartoncino che consta di una scala nominale a cinque livelli che prevede un’escalation d’interferenza da “In nessun modo” a “Hanno totalmente modificato la mia quotidianeità” che viene posto davanti al periziando invitato ad indicare una soluzione tra quelle proposte.
Soggetti:
Una volta steso il primo protocollo (S.V.A.R.P. I) si è proceduto alla prima fase sperimentale che prevedeva la somministrazione della S.V.A.R.P. a soggetti che avevano in corso o, che avevano avuto, una valutazione in materia di risarcimento del danno ivi compreso il danno esistenziale. La scelta del campione prevedeva una diversa estrazione sociale, eventi critici diversi (lutto, mobbing, colpa medica etc.) di diverse fasce di età. Si è ritenuta idonea come età di partenza per la somministrazione della S.V.A.R.P. un’età uguale o maggiore di 16 anni.
Attendibilità tra i somministratori:
Per valutare il grado di accordo tra somministratori diversi, il medesimo protocollo è stato siglato da due o più esaminatori ed è emersa una concordanza pressoché unanime nella valutazione.
Ricerca:
Dopo aver letto le istruzioni al soggetto si somministrava l’intervista. Questa avveniva di preferenza in un’unica seduta e la somministrazione era individuale. Lo sperimentatore leggeva a voce alta al periziando le domande e trascriveva nel protocollo le relative risposte. Si faceva presente al soggetto che non in tutte le attività indagate potevano emergere difficoltà e si precisava che l’indagine si riferiva al momento attuale della sua esistenza (ora). Ciò era determinante poiché nella seconda parte dell’intervista la medesima attività realizzatrice veniva messa a confronto con il prima “Prima di avere queste difficoltà……..” in tal modo la soluzione che si poneva davanti all’esaminatore nel suo protocollo di valutazione era anche di tipo differenziale.
La fase sperimentale partiva dall’analisi delle attività realizzatrici che avevano ottenuto almeno una valutazione di attendibilità minima. Sulla base del primo campione di riferimento sono emerse, nonostante un precedente screening, difficoltà di comprensione per alcune attività realizzatrici che, nella seconda versione (S.V.A.R.P. II), sono state ulteriormente semplificate.
Tale procedura, però, non ci soddisfaceva e abbiamo ulteriormente modificato il sistema di valutazione rendendolo più affidabile e preciso.
Una volta semplificate ulteriormente le aree che risultavano poco comprensibili e lasciato inalterato il restante protocollo di somministrazione, ci siamo concentrati su due fattori che secondo noi assumevano un’importanza rilevante dal punto di vista clinico-forense: l’intensità (I) e la durata (D) delle difficoltà. Il protocollo dell’esaminatore è stato così integrato da una scala ad intervalli regolari di 4 mesi (sulla base dei criteri del D.S.M. IV periodo di permanenza minimo dei sintomi per effettuare una diagnosi sono 3 mesi) che andava a sostituire in “quanto” la precedente domanda aperta della prima versione “da quando…”. Ad ogni intervallo regolare di tempo è stato assegnato un coeficiente da 0,1 a 1 (pari al 10% e 100%), ed anche i punteggi di differenza che si riscontravano tra “ora” e “prima” che, nella prima versione erano semplicemente riportati, sono stati posizionati su una scala Likert a 5 livelli con punteggi di differenze inclusi tra 0 e 4.
A questo punto l’esaminatore è in grado di ottenere un coefficiente che altro non è che il prodotto dell’intensità (I) per la durata (D). Come nella precedente versione abbiamo considerato valutabili solo le attività che ottenevano almeno un’attendibilità minima, ma, in questo caso, viene presa in considerazione anche l’ipotesi che l’area non possa essere valutata, magari per mancanza di opportunità, e ciò pur non incidendo sulla percentuale finale di danno, deve comunque essere tenuto in considerazione al momento della stesura della relazione.
Una volta individuate quindi le attività valutabili ed i rispettivi coef. I*D di ogni singola attività realizzatrice si procede alla costruzione di un grafico che offre, fin dal primo momento, una panoramica delle difficoltà del soggetto in esame. Per arrivare alla percentuale del danno esistenziale si procede tramite l’analisi dei risultati.
Analisi dei risultati:
Dopo aver riportato i singoli coeficienti di I*D si fa la sommatoria (Σ coef. I*D). La percentuale di danno altro non è che il risultato del rapporto fra la Σ coef. I*D/ n° delle attività valutate. Si ottiene così un valore compreso tra 4 e 0. Il valore medio di 4 corrisponde ad una percentuale di danno del 100%.
Risultati:
I risultati ottenuti attraverso la prima versione ed in particolare, attraverso la seconda versione della S.V.A.R.P., più precisa e dettagliata, hanno dato risultati inaspettati anche per noi. Alcuni periziandi ci hanno fatto notare che avevamo indagato in maniera approfondita ogni singola realtà delle vita quotidiana e, grazie alla riflessione implicita che avevano dovuto fare durante la somministrazione del test, avevano preso coscienza di difficoltà che fino a quel momento avevano preso solo in minima considerazione. La precisione poi dei risultati dello strumento, assieme alle informazioni ottenute dal colloquio clinico, forniva ai nostri interlocutori, sia essi avvocati che giudici, una percentuale precisa e affidabile di quello che poteva essere il danno presente nel soggetto tutto supportato dalla letteratura e dal ragionamento scientifico che avvalorava le conclusioni.
Ciò che in sintesi mi auguro è che questo strumento, di per sé molto utile nelle valutazioni in merito al danno esistenziale, trovi il giusto e meritato appoggio da tutti coloro che, nelle loro consulenze, si rendono conto di non poter prescindere da criteri di scientificità e validità7.
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1Cass. 31.05.2003 n. 8828; Cass. Sez. U., 24.03.2007 n. 6572; Cass. 6.2.2007 n. 2546; per una maggiore chiarezza espositiva rimandiamo a Tampieri M., “Il danno esistenziale risarcibile” in www.personaedanno.it
2Cassano G., “In tema di prova e valutazione del danno esistenziale. Una proposta interpretativa: l’equità calibrata” in www.altalex.it; Bilotta F., “Prova e quantificazione del dano esistenziale” in www.personaedanno.it;
3Neuropsicologo presso il Dipartimento di Salute Mentale U.S.L. 8 di Arezzo;
4Bianchi A. (a cura di), “La valutazione neuropsicologica del danno psichico ed esistenziale”, Cedam. Padova, 2005
5Rossi R., “Il risarcimento del danno esistenziale. Prova e quantificazione del danno esistenziale”, Convegno di Bolzano, 29 giugno 2007 in www.personaedanno.it; Bilotta F., “Prova e quantificazione del danno esistenziale” in www.personaedanno.it;
6Le più conosciute di queste scale, molto diffuse in ambito psichiatrico forense sono la S.I.R.S. (Structured Interview for Reported Symptoms) di Roger e la M-F.A.S.T. (Miller Forensic Assessment of Symptoms Test) di Miller.
7Bianchi A., Pezzuolo S., “Primi quesiti in materia di danno esistenziale. Come se la cavano i “nuovi” consulenti del giudice” in www.personaedanno.it
Ero sicura che non sarebbe stato difficile, avevo diverso materiale in studio sul danno esistenziale, che fin dal primo momento mi aveva affascinato quindi non mi dovevo preoccupare.. In realtà le cose sono andate in maniera diversa… si… tanto materiale sul danno esistenziale… definizioni su definizioni… tutti ne parlavano ma nessun testo o articolo sembrava potermi essere d’aiuto per poterlo valutare. Anche i classici strumenti utilizzati in tema di qualità della vita (es. ICF e SF-36) non sembravano idonei a rispondere in maniera diretta a quella che era la definizione intrinseca di danno esistenziale, il quale, per sua stessa definizione, poteva esulare da una qualsiasi patologia (fisica o psichica).
Senza voler approfondire la natura del danno esistenziale, ricordo che la nascita ufficiale del danno esistenziale viene ricondotta alle cosiddette “Sentenze gemelle” 8827 e 8828 del 2003, le quali definiscono il danno esistenziale come “un non poter più fare o un fare altrimenti del soggetto”, cioè, in seguito ad un fatto illecito commesso da terzi, il soggetto si trova costretto a fare altrimenti, è costretto quindi, a modificare il suo stile e la qualità della vita: è indotto a compiere scelte diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Da qui maggiore risonanza al danno esistenziale è stata data dalle Sentenze della Cassazione (Cass. Sezioni Unite, 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546) nelle quali si sottolinea la definizione stessa di danno esistenziale e il fatto che all’interno della categoria del danno non patrimoniale trovano collocazione tre tipologie di danno tra loro diverse (danno biologico-danno morale-danno esistenziale). Difatti, il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del c.d. danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quella che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso.
Così inizia la ricerca. Ad oggi lo strumento del quale riporto i primi risultati dello studio pilota condotto è la S.V.A.R.P. II (Scala di Valutazione della Attività Realizzatrici della Persona), costruita assieme al collega Angelo Bianchi. Il primo lavoro affrontato è stata la costruzione della scala S.V.A.R.P. I i cui risultati hanno incentivato il proseguo del lavoro e la successiva costruzione della S.V.A.R.P. II.
Dal momento che il bene giuridico che il danno esistenziale intende tutelare è costituito dalle attività realizzatrici della persona, ossia tutte quelle attività che costituiscono la quotidianità dell’individuo e che vengono sconvolte dall’evento lesivo posto in essere, la S.V.A.R.P. II è stata suddivisa in aree, all’interno della quali sono state ricondotte attività che abbiamo chiamato “attività realizzatrici” della persona per un totale di 50 attività; essa propone un’analisi descrittiva della condizione esistenziale del soggetto in esame sia prima che dopo l’evento in causa e prevede un profilo di “compromissione esistenziale” caratterizzato dalla presenza di un indicatore che risulta dall’interazione di intensità e durata della compromissione riferita dal soggetto. In tutta questa analisi non viene mai persa di vista quella che è l’attendibilità, e cioè, la credibilità del soggetto testato.
Lo studio pilota1 che ha visto protagonista la S.V.A.R.P. II è stato condotto su un totale di 37 soggetti suddivisi all’interno di tre gruppi:
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danneggiati (coloro che avevano subito un danno illecito da parte di terzi e che avevano intrapreso un’azione giudiziaria);
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ansiosi (coloro i quali erano seguiti da psichiatri o psicologi e avevano diagnosi inerenti i disturbi d’ansia);
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normali (soggetti che non avevano subito un danno e che non erano mai stati da uno psicologo o psichiatra);
Il campione piccolo è stato determinato dall’esigenza di affrontare uno studio pilota quindi, scevro da esigenze di validazione del test – tale indagine ci doveva servire per comprendere se e in che misura il test poteva meritare ulteriori approfondimenti – e, inoltre, vista la casistica particolare abbiamo incontrato non poche difficoltà a reperire i soggetti per i diversi campioni.
L’ipotesi della ricerca era quella di dimostrare che lo strumento si comportava in maniera diversa a seconda che fosse sottoposto a un gruppo di soggetti o all’altro.
I gruppi erano composti da soggetti di età variabile dai 18 anni in su ed, equamente distribuita, era la variabile sesso.
È stata fatta l’analisi della varianza per gruppi, considerando la media del punteggio di ogni singolo gruppo e abbiamo visto che la differenza tra le medie dei gruppi era significativa2.
La nostra ipotesi è verificata: i risultati ottenuti da soggetti danneggiati differiscono significativamente rispetto ai risultati riportati da soggetti ansiosi e da soggetti che non hanno subito un danno e non soffrono di disturbi d’ansia.
Ad oggi stiamo procedendo all’analisi della correlazione tra le diverse attività per individuare quali attività, seppur diverse nel costrutto, elicitano la stessa risposta da parte del soggetto per procedere ad uno snellimento del test.
Quello che è importante ai fini della ricerca al momento attuale è, una volta ridotto il numero delle attività realizzatrici, ampliare il campione di riferimento per procedere ad una validazione più ampia sulla scorta della risposta ai quesiti proposti alle Sezioni Unite, divenendo, così, uno strumento di prova specifico in tema di danno esistenziale.
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1 Lo studio pilota è stato possibile anche grazie al contributo dei membri dell’Associazione L’Ancora Blu di Lastra a Signa (FI) e del suo presidente Dr. Emanuele Bartolozzi nonchè alla disponibilità e alla professionalità specifica della dott.ssa Graziella Bertelli che qui ringrazio sentitamente;
2 Le tabelle inerenti l’analisi della varianza sono disponibili presso gli autori.