Home EventiConvegni Convegno internazionale “criminalmente: tra scienza, cultura e società”

Convegno internazionale “criminalmente: tra scienza, cultura e società”

di Sara Pezzuolo

Prato, 26 maggio 2007

Organizzato dal Lions “Castello dell’Imperatore” e diretto dalla Dottoressa Marisa Aloia

Si è svolta nella Sala Convegni della Prefettura di Prato la seconda edizione del Convegno internazionale “CriminalMENTE” con il patrocinio della Prefettura di Prato, del Lions Club “Castello dell’Imperatore”, della Università di Wroclaw (Polonia), del Polo Universitario “Colle Val d’Elsa”, della Scuola Superiore di Perizie (AGL) e del Gruppo di Ricerca SCIENZEMEDICOLEGALI della Università degli Studi di Siena (fondato e diretto dal Prof. Cosimo Loré www.scienzemedicolegali.it). L’obiettivo dell’incontro è stato quello di analizzare la mente criminale, più in generale il fenomeno criminale da un punto di vista scientifico, culturale e sociale, valutarne il suo divenire da differenti prospettive in modo da poter comprendere e spiegare le diverse sfaccettature che lo caratterizzano.

Dopo i saluti della Dottoressa Eleonora Maffei, Prefetto di Prato1, e della Dottoressa Daniela Toccafondi, Presidente del Lions Club, ha introdotto i lavori il Dottor Giacomo Dentici, Questore di Prato2, il quale in ambito di “Multiculturalità e criminalità” ha esposto dati significativi e compiuto un’attenta analisi della criminalità straniera. “Per incidere efficacemente sulla realtà criminale, bisogna osservarla attentamente. C’è stato in quest’ultimo periodo un andirivieni di ministri, viceministri, sottosegretari e politici”. Il Questore, utilizzando la metafora del “tutti al capezzale del malato”, ha sostenuto che “quando c’è un malato è perché qualcuno probabilmente non ha fatto quello che avrebbe dovuto fare al momento opportuno”. Additato come colui che attacca le istituzioni, si è difeso affermando di essere solo un tecnico deputato a osservare i fenomeni criminali.

L’elemento che emerge con estrema evidenza a Prato è l’insediamento dei cinesi; tuttavia questo è probabilmente il gruppo più appariscente, ma in realtà vi sono delle comunità numericamente importanti rappresentative di circa centoquindici etnie. Ci si rende conto che questa realtà giungerà al collasso, non solo perché la città non riesce più a contenerle, ma incontra difficoltà anche ad amalgamarle e integrarle. Se le politiche sia di amministrazione locale sia nazionale non terranno conto di tali tematiche, probabilmente si arriverà a un punto di rottura che determinerà uno scontro sociale. Le problematiche che pongono gli stranieri sono duplici: una d’inserimento (accoglienza, assistenza, integrazione), l’altra di criminalità. “Sarà pur vero che, come da molte parti si afferma, gli stranieri sono una risorsa, ma ciò è vero nella misura in cui partecipano alle attività produttive, economiche e sociali del Paese (lavorando legalmente, pagando le tasse, etc.). Nel momento in cui gli stranieri non adempiono tali obblighi, non sono più una risorsa”.

Analizzando i dati relativi al fenomeno criminale emerge una differenziazione di reati: il commercio di sostanze stupefacenti è appannaggio dei magrebini, la prostituzione è legata alle etnie dell’est, i furti e le rapine agli albanesi, rumeni e slavi; la meno appariscente è l’etnia cinese che commette i reati all’interno della propria comunità (estorsioni, regolamento di conti e altri reati ai danni dei componenti della stessa etnia).

A dimostrazione che la multiculturalità è ravvisabile anche in campo grafologico, la Dottoressa Marisa Aloia3, psicologa, psicoterapeuta, presidente della Scuola Superiore di Perizie e componente del gruppo di ricerca SCIENZEMEDICOLEGALI, ha trattato il tema “Tracce, segni, caratteri”. “Ogni tratto è la traccia visibile di un movimento, la scrittura è vita. Ci sono elementi della nostra scrittura che sono importanti e che hanno un significato e una correlazione psicologica. Nella scrittura esistono trecento singoli segni che vanno esaminati ma che, per essere significativi, devono essere rielaborati e valutati insieme: il singolo segno non è importante, l’insieme dei segni costituisce la personalità”. Il percorso grafico di ognuno è lo stesso: si riceve lo stimolo, si attiva il centro della scrittura, dopodiché si trasformano questi impulsi e attraverso la mano si riesce a scrivere.

Si sono analizzate diverse tipologie di scritture: quella latina – semplice, con presenza di minuscolo e maiuscolo, stampatello e corsivo, da destra a sinistra (da noi verso gli altri, simbolo di apertura); quella cirillica – squadrata, con presenza del solo stampatello; quella greca – con presenza di minuscolo e maiuscolo; quella ebraica – da destra verso sinistra (movimento regressivo che simboleggia chiusura); quella thailandese – con una serie di cerchietti o riccioli e corpo scritturale privo di allunghi; quella cinese – con regole rigorose, scrittura verticale, colonne allineate da destra a sinistra; e infine quella araba – estremamente particolare e molto diversa da tutte le altre. Dall’analisi è emerso come la scrittura vada al di là della nazionalità, si osservano i segni, il tratto in movimento, e si può arrivare a stilare una perizia anche su alfabeti non conosciuti dal tecnico: l’importante è conoscere e valutare il modello grafico usato.

Si è analizzato un caso in cui alla relatrice è stato affidato l’incarico peritale per un processo in Corte d’Assise sul terrorismo islamico nel quale occorreva accertare l’identità grafica di alcune lettere scritte in arabo. Si doveva verificare a chi appartenesse la scrittura delle lettere che il pentito tunisino Chokri Zouaoui giurò di aver ricevuto nel novembre 2003, mentre era detenuto a Terni, dall’imam Mourad Trabelsi, recluso a San Vittore. Tra le lettere, spicca quella nella quale Trabelsi avrebbe invitato Chokri, una volta uscito dal carcere, a unirsi «alla squadra di Assalam Alaikum (noto nell’ambiente estremistico) per una partita di calcio certo della vittoria (della jihad)». Trabelsi negò di aver scritto le lettere e rilasciò un saggio grafico, affinché fosse analizzato insieme con quello già rilasciato dal marocchino Errag, il teste della difesa Trabelsi, che in aula si era già assunto la paternità delle missive: «Le ho scritte io, sotto dettatura di Chokri». Si è dovuto valutare il modello grafico, analizzare gli elementi che permettono congiuntamente di studiare la scrittura, controllare quella dei tre soggetti e infine verificare attraverso la comparazione se potessero essere riconducibili a un’unica mano. L’alfabeto arabo ha ventotto lettere, si leggono da destra a sinistra, non esistono le maiuscole. La scrittura araba ha un’impostazione “grafometrica”, cioè le lettere devono rispettare dei limiti di altezza ben precisi; tuttavia vi può essere una scrittura creativa che permette di variare molto, ad esempio la stessa frase può essere scritta in tre modi diversi, quindi stesso segno ma movimenti diversi. Perciò di fronte a similarità grafiche si può notare la singola formazione del movimento. Alla fine non solo si è dimostrato che le lettere provenivano da mani diverse ma si è accertato che esse non provenivano dal principale imputato.

Il Professor Ignazio Senatore4, ordinario di clinica psichiatrica della Università “Federico II” di Napoli, ha analizzato nell’ambito del tema “Cinema e psicoanalisi”, le interrelazioni tra inchiostro e psiche, illustrando porzioni di pellicole concernenti la scrittura. “Zodiac”5, film ispirato alla vera storia di un serial killer che terrorizzò San Francisco alla fine degli anni ’60 e la cui identità è ancora un mistero, narra la storia di un uomo che rivendica i propri omicidi con lettere inviate ai principali quotidiani locali utilizzando come logo, lettere e ideogrammi presi da vari alfabeti.

In un’altra porzione di pellicola c’è un rito d’iniziazione che avviene tramite la scrittura: tale rito modificherà la struttura psicologica della protagonista che da questo elemento iniziale comincia a sviluppare una sorta di perversione per cui chiederà agli uomini di dipingerle il corpo, per poi passare a una fase successiva in cui sarà lei a dipingere il corpo agli uomini. Vale a dire una sorta di centralità edipica che giunge alla perversione.

In un altro film c’è il problema delle lettere anonime: c’è tutto il dramma psicologico di chi inizia a spedire lettere anonime a una persona. Questa è una forma di perversione come le telefonate notturne dei maniaci che ansimano e sperano di eccitarsi o minacciando o sussurrando frasi oscene alle donne; ma nel contesto delle lettere anonime siamo ancora nella “normalità”, cioè nell’area nevrotica.

Infine l’ultima pellicola in cui una donna si toglie la vita, ma prima di farlo tappezza la stanza di scritte.

L’analisi di tali pellicole ha mostrato, quindi, che ogni forma d’arte ha una sua scrittura ed anche la mente umana ha una serie di possibilità proiettive: la scrittura, la voce e il segno grafico.

“Neuroscienze e diritto: nuove ricerche e vecchi problemi” è stato l’argomento esposto dal Professor Luca Sammicheli6, psicologo, professore di sociologia della devianza presso la Università degli Studi di Padova e Giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Venezia. Il suo intervento è stato teso a dimostrare come le ricerche neuroscientifiche affrontino la criminologia da un punto di vista estremamente innovativo ma si scontrino con questioni metagiuridiche e applicative.

Innanzitutto occorre fornire un quadro generale delle possibili applicazioni delle neuroscienze in ambito criminologico. Concretamente, si possono individuare tre settori: 1) neuroscienze criminologiche pure, 2) neuroscienze dell’imputabilità (neuroscienze delle azioni imputabili) cioè delle funzioni mentali coinvolte nell’agire criminale e 3) neuroscienze dei processi attributivi cioè dei meccanismi attraverso i quali l’osservatore esterno attribuisce la responsabilità dell’agire umano e quindi anche di quello criminale. Per quanto riguarda il primo aspetto, le metodologie sono abbastanza semplici: si tratta di un confronto tra patologie psichiatriche, popolazione criminale e normale ed eventuali correlati neurali, quindi neuroanatomia e neurofisiologia. Le ricerche in tal senso sono numerosissime, ci sono stati ad esempio studi sull’individuazione dei correlati neurali della psicopatia che è una categoria spesso associata al fenomeno criminale. Oppure altri ambiti di ricerca che hanno tentato di confrontare popolazioni schizofreniche con passati di violenza a popolazioni schizofreniche senza passati di violenza, andando anche in questi casi alla ricerca di un’eventuale correlazione neurale. Bisogna ricordare che le neuroscienze hanno come metodo cardine l’individuazione di un correlato “anatomo-clinico” e quindi l’individuazione di una base neurale del comportamento. Ovviamente dal versante del diritto si sono mosse a tale teoria accuse di neolombrosismo, perché in fondo il Lombroso nella fossetta occipitale del signor Villella cercava il terzo lobo, andava cioè alla ricerca della struttura nervosa nella quale individuare un determinismo all’azione criminale7.

Il secondo ambito di ricerche riguarda la fisiologia e normalità contrapposte alla patologia di quelle funzioni mentali correlate all’agire criminale. Si fa riferimento alla cognizione sociale, quindi al ragionamento morale e al comportamento morale. Per ciò che attiene alle patologie del volere, il gruppo di lavoro del quale il relatore fa parte8, ha abbozzato una serie di ricerche sulla scia dei lavori di Libet9 nei quali si tentò di dimostrare che l’intenzione all’azione nasce prima della coscienza di questa. In altre parole si attivano le aree della concentrazione e dell’azione prima che il soggetto ne sia consapevole. Si è posto quindi il problema di dove sia il nostro libero arbitrio se effettivamente si è coscienti di ciò che si fa solo in un momento successivo, anche se estremamente limitato – si parla infatti di decimi di secondo. Libet nella sua ricerca si era accorto che nella fisiologia del comportamento volontario esiste una finestra temporale tra la presa di coscienza dell’intenzione e l’azione, cioè concettualmente tra l’attivazione delle aree della consapevolezza rispetto all’attivazione dello stimolo muscolare. In questa finestra temporale aveva individuato il momento del cosiddetto “libero veto”: in fondo non siamo dotati di un libero arbitrio, ma di un libero veto, cioè abbiamo una libertà di inibire azioni che non vogliamo porre in essere. Per esempio, nel caso della sindrome della Tourette10, questi due momenti si sovrappongono, cioè il momento dell’attivazione coincide col momento dell’esecuzione e quindi in tale patologia si perde il momento dell’inibizione dell’azione. Si badi bene che si tratta di ricerche compiute in laboratorio, quindi in una fase sperimentale ben lontana da un’applicazione pratica. Altro settore delle neuroscienze applicate alla criminologia è quello del ragionamento morale: in un articolo del 2005, John A. King ha dimostrato che si attiva un medesimo circuito neurale correlato al comportamento socialmente adeguato, cioè la medesima struttura s’innesca sia quando, attraverso la simulazione di un videogioco, si spara a un mostro sia quando si ha un comportamento di solidarietà con un bambino. Perciò non vi sarebbero strutture del comportamento violento e non violento, ma strutture neurali che condividono il comportamento sociale adeguato11. Sempre nell’ambito del ragionamento morale esiste il famoso esperimento di Greene, che ha dimostrato l’esistenza di diversi processi psicologici e meccanismi neurali coinvolti nei dilemmi morali personali e impersonali. L’esperimento è il seguente: c’è un treno in corsa e c’è un bivio; su un binario una sola persona, sull’altro cinque. Al soggetto sperimentale è detto di tirare la leva per spostare il treno sul binario dove c’è una sola persona: questo è il cosiddetto dilemma morale impersonale, perché in qualche modo c’è un minore coinvolgimento diretto. Nel dilemma morale personale lo stesso risultato è realizzato prendendo fisicamente una persona e buttandola sul binario; in tal caso il coinvolgimento personale è maggiore. Si è osservato che si attivano aree diverse, e ciò è stato reso possibile attraverso tecniche di neuroimaging, vale a dire tecniche di mappatura delle aree cerebrali attivate: nei dilemmi morali impersonali si attivano le aree coinvolte nel ragionamento cognitivo puro, mentre nei dilemmi morali personali si attivano maggiormente le aree coinvolte con l’affettività12. Anche in questo modo, quindi, vi è la dimostrazione dell’esistenza di sistemi che interagiscono e a volte confliggono nel comportamento morale. È appurato che in caso di gravi patologie frontali, quei processi sono coinvolti e c’è tutta una tradizione criminologica che vede nella patologia di queste aree, la patologia del comportamento criminale.

Infine il terzo settore di ricerca è quello che proviene dai recentissimi studi della scuola di Parma sui cosiddetti “neuroni mirror”, che si attivano nell’osservazione dei comportamenti altrui: in altre parole, osservando il comportamento altrui lo simuliamo e lo progettiamo come se lo facessimo in prima persona. La conseguenza di questo esperimento, approfondita soprattutto dal Professor Gallese, è che i neuroni mirror possono essere considerati come il processo fondamentale dell’empatia: simulando ciò che l’altro fa, proviamo a farlo e nel farlo lo valutiamo13. Ad esempio nel guardare un soggetto che picchia un bambino, simuliamo l’azione e nel simularla operiamo una valutazione morale. Ci si è accorti, ad esempio, che nei pazienti autistici vi è una grave carenza di questi sistemi, quindi una grave carenza di empatia.

Queste ricerche possono concretamente avere un impatto nel mondo del diritto. Questo impatto si ha a diversi livelli. Innanzitutto su un piano metagiuridico. A livello internazionale si è sostenuta l’opportunità di eliminare qualsiasi sistema retributivistico. Il riduzionismo scientifico applicato al diritto penale comporta necessariamente l’eliminazione dei sistemi retributivistici: non può esserci esecuzione della pena se si parte dall’assunto scientifico che il comportamento umano sia frutto della fisica dei neuroni. Questa teoria ha scatenato delle reazioni, come ad esempio la tesi sostenuta da Eastman e Campbell14: non si può portare a livello del sistema penale il riduzionismo scientifico, poiché quest’ultimo nasce in un settore che vale solo per l’ambito scientifico ma portato in un contesto per così dire convenzionale perde di significato.

Un secondo aspetto delle neuroscienze nel campo giuridico è l’antinomia tra fatto criminale e uomo criminale nell’ambito del sistema penale. Sappiamo che il nostro sistema penale è sospeso nell’antinomia tra fatto criminale (giudizio di colpevolezza con necessità di punire i reati)15 e rieducazione e difesa sociale16 dall’uomo criminale17. È questo il significato del sistema del doppio binario, cioè “un sistema per il quale si prevede, accanto e in aggiunta alla pena tradizionale inflitta sul presupposto della colpevolezza, una misura di sicurezza, vale a dire una misura fondata sulla pericolosità sociale del reo e finalizzata alla sua risocializzazione”18. Avendo la pena in senso lato, quindi, questa doppia funzione si pone il problema della valutazione della personalità del reo. Quest’aspetto fa emergere le vecchie questioni sul problema della perizia psicologica, vietata dall’articolo 220 del codice di procedura penale19. Tuttavia tale aspetto non è mai stato assolutamente pacifico: tale divieto era stato fatto oggetto prima di tutto di numerosi attacchi di legittimità costituzionale in relazione all’articolo 24 della Costituzione e all’articolo 314 del vecchio codice di rito; si sosteneva che, nella misura in cui si sarebbe dovuta quantificare la pena utilizzando, ai sensi dell’articolo 133 secondo comma del codice penale20, il carattere del reo, non avendo il giudice specifiche competenze di psicologia, tale divieto di perizia psicologica avrebbe contrastato con la finalità della pena. Le eccezioni di legittimità furono respinte ma persisteva il problema: tant’è che nel progetto preliminare Conso-Pisapia del 1978 (penultimo progetto del codice di procedura penale) la perizia criminologica era prevista; nel successivo progetto, che ha poi dato vita al vigente codice di rito, è stata invece vietata.

Perciò le neuroscienze in qualche modo spingono verso una maggiore tecnicizzazione della reazione al fenomeno criminale: ci sono elementi tecnici che non possono essere lasciati solo al giurista e che non possono prescindere da valutazioni prettamente neuropsicologiche. Tutto ciò in generale; su un piano più direttamente applicativo le neuroscienze comportano problemi pratici: il tasso di scientificità necessario in un esperimento universitario non è sufficiente in un’aula giudiziaria. “Si può dire che un fenomeno naturalisticamente esiste quando ha un certo livello di probabilità, ma a un giudice bisogna dare la certezza”. Quindi il primo aspetto pratico delle neuroscienze è che tali ricerche raggiungano un determinato tasso di scientificità prima di poter essere applicate in un processo.

Un secondo aspetto riguarda la coerenza di linguaggio nelle assunzioni, nel senso che le stesse questioni poste dallo scienziato possono avere un altro significato se poste dal giurista. Cioè nel passaggio da una realtà scientifica, caratterizzata dall’empirismo, a una realtà convenzionale, ci sono dei rischi di mismatch altissimi, ossia che si diano al giudice risposte a domande diverse da quelle da lui poste. Basti pensare alla statistica: dire che in una determinata popolazione c’è un determinato rischio, ad esempio che l’ottanta percento degli psicopatici commetta un crimine, non vuol dire che un soggetto psicopatico ha l’ottanta percento di probabilità di commettere un crimine. Da ciò si desume l’estrema cautela che deve caratterizzare l’utilizzo della statistica nei processi.

Infine un ultimo problema è il tasso di delega dato ai tecnici nei processi. Ad esempio per ciò che riguarda l’imputabilità (possibilità di essere sottoposti a pena criminale)21, quando al perito è chiesto “mi dica se l’imputato poteva agire diversamente” è come chiedere al perito di pronunciarsi sull’elemento soggettivo del reato che spetta invece al giudice valutare. “Sarebbe quindi opportuno ripensare alcuni istituti giuridici in virtù di questa commistione, per evitare appunto conflitti di competenza e cioè che, di fatto, il giudice deleghi al perito decisioni che spettano invece a lui”.

Di un tema attualissimo che la cronaca segnala quasi quotidianamente vale a dire “Criminalità e satanismo” ha discusso Patrizia Santovecchi, Presidente dell’Osservatorio Nazionale Abusi Psicologici (ONAP)22. Innanzitutto è opportuna una premessa: secondo il Professore Noblet, docente della Università del Sud California, nel 1946 negli Stati Uniti erano attive diecimila congreghe di satanisti; nel 1976 diventano quarantottomila, nel 1985 centotrentacinquemila, alla fine del XX secolo i satanisti erano circa un milione e mezzo. Questi quelli conosciuti, poiché c’è un dark number che sfugge a ogni controllo.

In Italia non sono disponibili informazioni precise giacché molte congreghe operano segretamente, in piccoli gruppi, sfuggendo a ogni controllo; inoltre non c’è mai stato fino ad oggi uno sforzo di monitoraggio serio che abbia consentito di compiere una stima sul territorio. Il rapporto del Ministero degli Interni, datato ormai febbraio 1998, parla di una decina di gruppi satanico-luciferiani. Questo però è un dato che oltre ad essere obsoleto, è abbondantemente sottostimato poiché il Ministero prende in considerazione solo le segnalazioni effettuate alle varie forze dell’ordine. Secondo altre fonti, i gruppi operanti in Italia sono seicentocinquanta circa, con un numero imprecisato di adepti.

Nell’ambito del satanismo si può distinguere la teoria dalla prassi, cioè rispettivamente le principali forme di satanismo e le modalità con cui si entra a far parte dei suddetti gruppi.

Riguardo alle forme di satanismo si possono individuare quattro principali filoni. Il satanismo razionalista nacque e si sviluppò in Inghilterra nel 1700 in ambienti illuministi e libertini. In quest’ambito si praticavano messe nere e riti blasfemi. Per gli illuministi libertini inglesi si trattava di esprimere la loro ribellione contro la religione dominante. Questo tipo di corrente abbraccia Satana quale emblema di anticonformismo e edonismo. Gli adepti affermano di non credere per nulla al soprannaturale, ma di celebrare l’attrazione del demonio e i riti satanici come psicodramma terapeutico. Satana è la rappresentazione del male in una visione del mondo anticristiana, dove il suo ruolo largamente simbolico autorizza il satanismo come religione potenzialmente atea. Essi non credono né in Dio né in Satana, ma celebrano la messa e i rituali in visione liberatoria dalle superstizioni culturali occidentali.

Il satanismo occultista si sviluppò negli ambienti illuministi libertini della Francia del 1700. I suoi adepti confidavano di entrare veramente in contatto con Satana e di poter avere dei benefici da questo incontro. Negli Stati Uniti il satanismo occultista moderno nasce da una serie di scismi del satanismo razionalista che ha generato quella che può essere considerata la maggiore costellazione satanista contemporanea. Il satanismo occultista è fondato sull’accettazione della visione del mondo contenuta nella Bibbia. Alla base c’è l’adorazione di Satana quale dio; i satanisti occultisti credono fermamente che Satana sia il cherubino scacciato dall’Eden e il grande responsabile del male, ed è quindi con cognizione di causa che vengono a patti con lui. I suoi leaders sostengono di poter evocare Satana e di ricevere da lui delle rivelazioni; gli adepti credono che Satana sia il principio del male e scelgono di stare dalla sua parte. La messa nera è costituita principalmente da un proclamato odio verso il Creatore e verso Cristo, spesso attraverso un crocefisso blasfemo e grottesco.

Il satanismo acido, legato alle esperienze del mondo della controcultura e della droga, sfugge alle indagini poiché fenomeno clandestino. Vi è una costellazione di piccoli gruppi che si riuniscono, celebrano riti, si sfaldano e non sono notati da nessuno se non quando le loro attività diventano chiaramente illegali. La maggior parte dei gruppi di satanismo acido, corrisponde a uno schema che tende a ripetersi: dieci-quindici giovani dai quattordici ai venticinque anni (età che però si sta abbassando) che si associano principalmente per consumare droga, ascoltare musica rock-satanica e riprodurre spesso in maniera rudimentale i rituali satanici. I satanisti acidi, spesso sotto l’effetto di sostanze allucinogene, sono convinti di invocare il demonio; il culto del signore del male può essere anche pretesto per dare sfogo a intime perversioni: droga, orge, pratiche sessuali estreme, sadismo, pedofilia, gesti vandalici contro edifici di culto, violazione di tombe, violenza verbale e fisica.

Nel luciferismo, d’ispirazione filosofico-religiosa di tipo manicheo-gnostico, Satana o Lucifero è oggetto di venerazione all’interno di cosmologie che ne fanno un elemento buono o comunque necessario del sacro. Lucifero è il principe perfetto, il portatore di luce, il cui nome sta a indicare la stella del mattino, uno di quei principi vitali da cui è scaturito l’inverso, non il male ma l’antagonista, l’opposto di Dio che è altrettanto necessario. Il luciferismo ritiene che anche la storia biblica, come altre storie, sia stata scritta dai vincitori e che Satana sia una figura in realtà molto più positiva di quanto la Bibbia nella sua attuale versione voglia farci credere. Perciò Dio è ritenuto responsabile del carattere imperfetto del mondo, mentre Satana è il capostipite della ribellione degli uomini contro di lui, quasi un benefattore che li ha affrancati dalla tirannia di Dio.

Passando all’analisi della prassi si sono analizzati le modalità di introduzione nelle sette. Innanzitutto vi è un atto di fede rovesciato: nel culto satanico i vecchi valori del cristianesimo vanno rigettati in virtù di un nuovo sistema di valori che si pone come anti-istituzionale. Questo nuovo sistema di valori stigmatizza il sacro e lo distacca attraverso pratiche sessuali aberranti (orgia rituale che il neofita deve compiere).

Il continuo pervertimento della sessualità può far cadere facilmente il soggetto in deliri mistici di amplesso definiti demonomanie, termine che in ambito sessuologico indica ogni credenza nella possibilità di rapporti tra esseri umani e di natura demonica. Per raggiungere questo scopo il satanista compie uno spostamento della sacralità nel senso di materialità: il divino passa da soggetto spirituale a oggetto materiale attraverso una sua rappresentazione fisica, il feticcio.

Il feticismo è il trasferimento, lo spostamento della meta sessuale dalla persona a un suo sostituto, uno spirito, un demone. Il feticcio può essere un oggetto, una statua, un elemento simbolico. Nei casi di omicidi rituali, l’assassino concentra l’interesse sessuale su una o più parti del corpo della vittima: quest’ultima acquista importanza giacché possiede quella particolare parte che interessa l’assassino. Le parti del corpo della vittima predilette dagli assassini seriali sono in genere la testa, i seni, i genitali e le viscere.

Altra ossessione sessuale è quella di avere rapporti attraverso oggetti rappresentativi delle divinità consistenti in statue: è questa la statuofilia.

Poi l’adepto è introdotto attraverso altre prove d’iniziazione. Una di queste è l’osculum infame (bacio osceno, vergognoso), che nel satanismo è il bacio di alleanza con Satana. Di solito consiste nel baciare l’ano di una personificazione di Satana, cioè il sacerdote della congrega o un caprone. Questo è un gesto considerato anche come simbolo di totale sottomissione e di rovesciamento dei valori convenzionali.

Poi si passa oltre: l’esibizionismo, in cui gli astanti che partecipano alle orge provano piacere nel mostrare i propri genitali agli altri.

Il masochismo, in cui il neofita deve sottostare a violenze personali fisiche. In questa perversione si trovano molte degenerazioni di sottomissione sia psichica sia fisica, come ad esempio il picacismo, cioè una pulsione sessuale che si esprime nel mangiare parti del corpo umano e dei suoi prodotti (pelle, unghie, sudore, saliva, feci, urine, cerume, muco nasale, croste e pus). Tali attività rimandano poi ad altre specifiche perversioni, come ad esempio la spermatofagia, il vampirismo e il cannibalismo.

Nel satanismo assume poi un ruolo fondamentale la sodomia. Questa perversione (così come la spermatofagia) riveste un ruolo magico legato all’energia. Energia che può essere riutilizzata secondo i satanisti sul piano materiale senza nessun limite. La sodomia viene anche utilizzata come tributo di sottomissione dei neofiti verso il capo della congrega o come forma di pagamento anticipato a qualche membro del gruppo satanico cui si chiede un favore magico oppure come rituale di richiesta del patto diabolico.

Infine il sadismo. Il piacere è dato dal causare sofferenza fisica e psicologica agli altri. Alla luce del fatto che questa forma di perversione, oltre al piacere, produce un distorto senso di onnipotenza, il sadico prolungherà il più possibile l’agonia della vittima. Il sadismo può essere definito, nell’ambito del satanismo, anche come preparatore di un evento maggiore: l’omicidio rituale.

Sempre nello stesso ambito la Dottoressa Jolanta Grebowiec Baffoni23, in rappresentanza dei Professori Zdzislaw Kegel24 e Macieja Szostak25, ha analizzato il tema delle “Sette distruttive come problema di patologia della vita sociale” nella realtà polacca. Il problema è emerso in Polonia quando è apparso il libero mercato ideologico-religioso (1989). Non si può dire che tutti i gruppi nuovi che si presentano siano un pericolo sociale. È opportuno condurre un’analisi sociologica, fenomenologica, psicologica ma soprattutto criminologica del fenomeno. Uno dei maggiori problemi delle sette è quello della cosiddetta manipolazione psichica della persona all’interno dei gruppi. Riconoscere il fenomeno delle sette religiose incontra dei problemi. Il termine setta è un termine relativo che non è abbastanza descrittivo. Bisognerebbe fare una distinzione terminologica tra setta distruttiva e nuovo movimento religioso. In Polonia il fenomeno è abbastanza rilevante, anche se, a differenza dell’esperienza italiana, si è ancora a livelli di ricerca teorica.

La Dottoressa Silvia Priori26, psicologa e psicoterapeuta e consulente del Ministero della Giustizia e dello Stato Maggiore dell’Esercito, ha esposto “La memoria di riconoscimento nell’atto di ricognizione”. La ricerca empirica e studi condotti su errori giudiziari hanno dimostrato che la memoria di un testimone oculare può subire contaminazioni esterne, nel momento in cui viene richiamata per stabilire l’identità del presunto reo. I risultati di tali studi indicano che l’attendibilità dell’esperimento di ricognizione può subire considerevoli flessioni, riguardo a criteri formali e procedurali adottati. Nella letteratura scientifica sull’argomento, sono ormai reperibili accreditate linee guida che suggeriscono quali siano gli accorgimenti da rispettare e gli errori da evitare, per promuovere l’accuratezza e l’attendibilità di questo importante mezzo di prova27. La mancata adozione di cautele può pregiudicare la memoria del testimone con conseguenze anche gravi sul piano probatorio.

Innanzitutto bisogna tener conto del fatto che quando un testimone è chiamato a deporre, possono essergli richiesti due tipi diversi di compiti, che a loro volta chiamano in causa due differenti tipi di memoria, cioè la memoria evocativa e la memoria di riconoscimento. La prima è quel tipo di memoria che entra in gioco nel momento in cui al testimone è chiesto di riferire verbalmente circostanze o fatti ai quali ha assistito, mentre la seconda riguarda nello specifico l’esperimento di ricognizione, cioè entra in gioco nel momento in cui a un testimone posto di fronte a un gruppo di soggetti è chiesto di indicare se tra questi riconosca il soggetto visto sul luogo del reato28. Di per sé la memoria di riconoscimento è una forma molto più stabile rispetto a quella evocativa: quest’ultima può iniziare ad esempio a decadere anche, per certi tipi di materiale immagazzinato, a distanza di venti minuti dal momento in cui si è verificato un evento, mentre quella di riconoscimento si mantiene stabile per le prime due settimane e in alcuni casi particolari, ad esempio la percezione di volti atipici, può mantenersi a un buon livello di attendibilità anche a distanza di mesi.

Quanto detto finora riguarda la ricerca nell’ambito dei processi di memoria; se spostiamo l’attenzione sui dati che provengono dal contesto giuridico, ci troviamo di fronte ad una contraddizione: negli USA, ad esempio, da quando è stata introdotta la prova del DNA, nell’arco di dieci anni sono state prosciolte quaranta persone, trentasei delle quali condannate sulla base di ricognizioni errate. Studiando questa contraddizione si è scoperto che di fronte al tipico esperimento di ricognizione, il testimone tende a processare le informazioni utilizzando una particolare modalità di pensiero che tecnicamente viene definita “giudizio relativo”. Questo è una sorta di giudizio comparativo, cioè il testimone tende a mettere a confronto i soggetti che ha di fronte e a selezionare, tra questi, quello che più assomiglia al ricordo che ha del reo. Questo fatto di per sé non costituisce un problema, anzi potrebbe facilitare la situazione se si dà per scontato che tra le persone mostrate sia sempre presente il colpevole, e non è detto che sia sempre così29. I motivi per cui il testimone utilizza in modo così massiccio il giudizio relativo sono diversi, dipendono da molti fattori. In primo luogo ovviamente dipendono dalla bontà del ricordo: più il ricordo è confuso, sfumato, più il testimone avrà la possibilità di sbagliarsi e di riconoscere la persona errata. In realtà, però, nel facilitare questo tipo di processo di pensiero, interviene tutta una serie di variabili psicosociali. Di fronte all’esperimento di ricognizione molto spesso il testimone oculare è animato da una serie di falsi convincimenti che si basano più su dei luoghi comuni che non su una vera e propria consapevolezza di quello che è il suo ruolo: il testimone è di solito convinto che nel momento in cui è predisposto un esperimento di ricognizione il colpevole sia già stato catturato e quindi ci si aspetti da lui soltanto una conferma a un assunto che per gli inquirenti ha già acquisito un buon grado di consolidamento. Questa convinzione può portare il teste a deresponsabilizzarsi e a pensare che nel caso si sbagli, qualcuno comunque sarà in grado di accorgersene e di porvi rimedio. Questo convincimento lo porta anche a osservare attentamente chi conduce la ricognizione e a cercare di carpire da costui qualsiasi piccolo indizio che possa portarlo a comprendere l’ipotesi degli inquirenti, per poi eventualmente orientare la sua risposta sulla base di quell’ipotesi. Si comprende così come il teste sia facilmente suggestionabile ed è sufficiente anche un messaggio quasi impercettibile come ad esempio un piccolo cenno di assenso, un sorriso oppure un’inflessione diversa della voce per orientare la risposta. Sulla base di quanto detto è comprensibile come in queste situazioni sia estremamente importante fare in modo che il testimone si avvicini all’atto di ricognizione con la mente quanto più possibile sgombra da pregiudizi e da false aspettative. Per raggiungere quest’obiettivo, i ricercatori hanno raggiunto all’unanimità un parere concorde su questo punto: il teste prima di essere sottoposto alla prova dovrebbe ricevere due tipi di informazione. Innanzitutto dovrebbe essere avvertito che non è detto che fra le persone che gli saranno mostrate, sia presente il colpevole: questo serve da un lato a ridurre la probabilità che il teste utilizzi un giudizio relativo nel riconoscimento e dall’altro anche a legittimare un’eventuale negazione, cioè il teste deve avere ben chiaro che essere un buon testimone non significa necessariamente effettuare un riconoscimento ma può avere il significato di accorgersi che tra quelli esibiti il sospettato non c’è. L’altro avvertimento riguarda invece la figura del somministratore: il testimone cioè dovrebbe essere avvertito che chi sta conducendo la ricognizione in realtà non è a conoscenza di quale tra i soggetti mostrati sia il sospettato. Questo secondo avvertimento serve a tamponare l’aspetto in precedenza analizzato, quello della suggestione, in modo tale da evitare che il teste vada a caccia di qualsiasi indizio nella persona che conduce la ricognizione, che lo porti a comprendere le scelte degli inquirenti.

Un altro aspetto fondamentale è il grado d’imparzialità che deve essere garantito al presunto reo. Questo è un punto importantissimo perché un sospettato, in quanto tale, fino a prova contraria deve essere ritenuto innocente ed è quindi necessario che abbia le stesse probabilità teoriche degli altri soggetti che lo affiancano (c.d. “distrattori”) di essere selezionato. Per questo non è sufficiente affiancargli un certo numero di distrattori, ma è necessario che questi possano essere considerati valide alternative. A tal proposito, se un testimone descrive il colpevole come una persona bionda con occhi azzurri e si affiancano a costui distrattori che hanno occhi e capelli scuri, ovviamente si è costruita una prova che contiene un pregiudizio nei confronti del sospettato.

Gli studi in materia si sono quindi concentrati sull’individuazione del metodo migliore per selezionare i soggetti da esaminare; in Italia, ad esempio, come in quasi tutti i paesi del mondo, i distrattori sono selezionati sulla base del grado di somiglianza con il presunto colpevole30. Sembra che, laddove questo criterio possa essere intercambiabile, offrano maggiori garanzie di attendibilità altri criteri: ad esempio utilizzare non tanto il grado di somiglianza con il presunto reo, ma il criterio della descrizione, cioè utilizzare le caratteristiche del soggetto che sono citate dal testimone nella sua descrizione preventiva. Un altro filone di studi riguarda la messa a confronto tra le modalità con cui i soggetti vengono presentati al testimone: in Italia, e in quasi tutti i paesi del mondo, i sospettati vengono presentati tutti in simultanea, mentre invece sembra che una presentazione in sequenza possa facilitare una maggiore attendibilità dell’atto.

Infine un fenomeno particolare che è stato riscontrato essere alla base di molti errori giudiziari: supponiamo che il signor Tizio sia ritenuto autore di un reato al quale ha assistito un testimone e sia predisposto nell’immediatezza del fatto un primo riconoscimento fotografico nel quale l’immagine di Tizio è affiancata ad altre fotografie di altri soggetti e il testimone non riconosca nessuno. Supponiamo poi che sia disposta una ricognizione personale. Se Tizio, che era presente nel precedente riconoscimento fotografico tra quel gruppo di persone visionate, è l’unico soggetto trasferito nella ricognizione dal vivo, rischia di essere riconosciuto come la persona presente sul luogo del reato, a causa di un meccanismo psicologico che in termini tecnici è definito “traslazione inconscia”, in virtù della quale il testimone riceve un senso di familiarità da questo individuo, ricorda di averlo già visto ma dimentica la fonte di provenienza di quell’informazione e quindi può confondersi e pensare di avere visto quel soggetto sul luogo del reato.

È questo il caso famosissimo, riportato in letteratura, di Marvin Anderson, un cittadino americano condannato e recluso per circa nove anni con l’accusa di aver stuprato e seviziato in un bosco una ragazza, unica testimone del fatto. Il crimine era avvenuto in condizioni di oscurità ma la vittima ricordava di aver visto arrivare l’aggressore con una bicicletta rossa. Dalle indagini compiute nell’immediatezza dei fatti, gli inquirenti erano convinti che, per le modalità con cui la ragazza era stata inseguita, per il luogo dove era avvenuto il reato, etc., l’aggressore fosse qualcuno del posto. A quel punto, e qui c’è il primo errore, la polizia costruisce un primo riconoscimento fotografico in cui non sono presenti distrattori, ma tutti sospettati (presi dall’archivio delle foto segnaletiche sulla base dei precedenti specifici). Paradossalmente Anderson era l’unico incensurato in quel gruppo di persone; fu l’unico incensurato sospettato di quel reato semplicemente perché viveva vicino alla ragazza ed era possessore di una bicicletta rossa. Nel costruire questo primo atto di riconoscimento fotografico, la polizia non avendo foto segnaletiche di Anderson, si recò dal datore di lavoro facendosi consegnare la foto del tesserino. Nell’ambito di tale riconoscimento, questa foto era l’unica a colori e di grande formato a dispetto delle altre in bianco e nero. La ragazza, durante il riconoscimento, identificò Anderson come l’aggressore; in seguito fu disposta una ricognizione personale durante la quale la vittima confermò il riconoscimento. Dopo la condanna, trascorsi quindici anni in galera, un altro detenuto confessò di essere l’autore di quel reato. Fortunatamente per Anderson si era negli anni ’90, era già disponibile la prova del DNA ed erano stati conservati alcuni reperti di materiale biologico; si eseguì la prova genetica e si accertò con sicurezza che il colpevole fosse l’altro detenuto. L’aspetto più inquietante di tutto ciò è che fra le foto segnaletiche mostrate alla ragazza in prima battuta, quella del reale colpevole era presente. Si nota bene, quindi, come la forza della suggestione in questo caso abbia abbattuto la forza del ricordo31.

Anche in Italia è possibile trovarsi in situazioni di questo tipo poiché l’articolo 361 del codice di rito consente al Pubblico Ministero, ai fini della prosecuzione delle indagini, di poter disporre un atto di individuazione di persone32. La finalità di quest’atto, essendo in fase di indagini preliminari, è ovviamente soltanto relativa alla prosecuzione delle stesse e, affinché proseguano nel miglior modo possibile, sta al buon senso dell’operatore preoccuparsi che tale primo atto venga predisposto in modo adeguato senza intaccare l’eventuale acquisizione della prova nella fase processuale strictu sensu attraverso la ricognizione33.

La relazione “Viaggio grafologico nella mente criminale” presentata dal Dottor Angelo Vigliotti34, medico grafologo, presidente AGL Prato, è servita per fornire alcuni spunti di riflessione utili per comprendere e approfondire le dinamiche mentali attraverso il gesto grafico. La grafologia è utile ai fini della comprensione del lato oscuro della personalità di un soggetto e quindi anche dell’analisi di un delitto. Essa può contribuire a capire o scoprire il cammino degli impulsi e degli istinti, le vicissitudini esistenziali, l’enigma della personalità (almeno qualche aspetto), il dilemma psicologico e psicopatologico della mente.

Un punto di estrema importanza è il rapporto tra mente e coscienza, molto difficile da capire, anche perché la coscienza è un enigma. La coscienza è un nucleo d’identità, di consapevolezza, è un qualcosa che va al di là della mente, una consapevolezza che riguarda anche il tempo, quindi il passato, il presente e il futuro. In genere collegato al passato e al futuro, è la mente, mentre la coscienza (la consapevolezza interna, profonda) è collegata al presente, alla fluidità, al divenire, all’essere.

La personalità è uno stile di vita che ha molte dimensioni, essenzialmente sono dieci e ognuna ha la possibilità di avere un quadro grafologico. Di conseguenza il “cocktail” che alla fine si ottiene, è un qualcosa che apre una finestra sulla personalità: costituzione, studiata e approfondita soprattutto da studiosi di endocrinologia; temperamento e carattere, dove il temperamento riguarda la struttura neurofisiologica endocrina e quindi genetica dell’individuo, mentre il carattere è una sintesi tra genetica e ambiente; inconscio, studiato da Freud; apprendimento da elementi ambientali, in quanto il crimine passa necessariamente attraverso l’apprendimento e non soltanto attraverso il temperamento; emozioni e sentimento, la parte più istintiva di noi (tra le emozioni c’è la rabbia, quando essa diventa sentimento si trasforma in aggressività); motivazioni; difficoltà esistenziale, in quanto ci possono essere situazioni ottimali su tutti i versanti, ma esserci una difficoltà a livello esistenziale (un carattere o un temperamento o una costituzione vulnerabile, nella difficoltà, può andare in crisi); adattamento e relazioni con gli altri, ad esempio egoismo e altruismo; evoluzione e maturità; consapevolezza e amore. Questi sono i dieci elementi della personalità.

In effetti, le nostre personalità evolutive sono tre (che compongono un individuo lungo il suo percorso esistenziale): infantile, istintiva con uso prevalente del corpo e delle emozioni; razionale, con uso prevalente della ragione; saggia, equilibrata in cui non c’è solo responsabilità, uso della mente e del pensiero ma anche della consapevolezza e dell’amore.

Questa struttura teorica è molto importante per capire e interpretare le scritture. Se ne sono analizzate alcune. Quella di Erika de Nardo (delitto di Novi Ligure), pluristile, disordinata, pluridirezionale, cioè una scrittura che appartiene a una personalità doppia, non unitaria, poco equilibrata. Quella di Pietro Pacciani (il mostro di Firenze), tortuosa, pluristile in cui il nero prevale sul bianco, priva di armonia. Quella di un uomo di trentacinque anni colpevole di concorso in omicidio, caratterizzata da discordanza sulla direzione, sullo spazio e sulla pressione35. Poi la scrittura di una donna di cinquantadue anni colpevole di omicidio, bella, elegante, raffinata, fluida con il “riccio” della fissazione materialistica, sede del potere. Infine quella di un maschio di ventotto anni tossicodipendente, caratterizzata da esasperazione della lettera “l” che diventa una specie di archetto, di cerchio. Il soggetto soffre di una sindrome maniacale, il delirio è espresso in quei cerchi.

In definitiva si può dire che lo studio grafologico ci consente di conoscere il ritratto di una persona anche nel suo lato oscuro; ci consente inoltre di esplorare i fattori predisponenti, condizionanti e traumatici nel loro percorso evolutivo.

Il Dottor Pietro Pastena36, criminalista, ha introdotto “Il linguista detective”, tema interessante non da molto all’attenzione dei giuristi. La linguistica forense si pone al centro di un triangolo fra criminalistica, linguaggio e mente. La linguistica giudiziaria studia gli usi della lingua in ambito giudiziario, per esempio come è redatta una sentenza, la comprensione del processo da parte dei testimoni culturalmente svantaggiati, e così via; ma è diversa dalla linguistica forense vera e propria: questa è quel ramo della criminalistica che utilizza la linguistica nell’investigazione. È una scienza abbastanza nuova, il termine è stato coniato nel 1968, mentre è diventato di uso comune dando luogo a una disciplina vera e propria soltanto dal 1994. In Italia è un campo in pratica ancora sconosciuto.

Il caso dell’unabomber americano ha reso possibile la conoscenza di questa disciplina: Theodor J. Kaczynski aveva inviato ordigni esplosivi dal ’78 agli anni ’9037. Agli inizi degli anni ’90 riuscì a far pubblicare un suo manifesto ideologico dal “New York Times” e dal “Washington Post”. Suo fratello riconobbe alcune espressioni tipiche e si rivolse all’FBI38. Il coordinatore del gruppo di lavoro era l’agente Fitzgerald che si rivolse a un linguista il quale affermò si trattasse di Kaczynski alla luce dei confronti con altri scritti. L’avvocato difensore si rivolse a Don Foster39, diventato famoso perché aveva scoperto che un libello diffamatorio nei confronti di Bill Clinton in realtà era stato scritto da un certo giornalista. Foster non accettò la difesa, anzi trovò ulteriori elementi contro Kaczynski affermando inoltre che nessun linguista serio avrebbe assunto la difesa. Così non fu, perché Robin Lakoff della Università di Berkley40 convinto dell’innocenza dell’uomo denunciò gli errori grossolani degli investigatori. Tutto finì in una disputa tra linguisti, perizie e controperizie, e alla fine Kaczynski venne condannato ed è tutt’ora in galera. La disputa si è basata sull’identificazione dell’idioletto di Kaczynski41.

L’idioletto è l’universo linguistico individuale, cioè il linguaggio che ognuno di noi usa nel parlare. Si parla non solo per comunicare ma anche in realtà per dare forma ai pensieri: se non parlassimo, non avremmo modo di formulare il nostro pensiero, che si forma attraverso le parole e siccome ciascuna mente umana è diversa da quella di tutti gli altri, anche il nostro linguaggio sarà diverso da quello di tutti gli altri.

Un’applicazione di questo principio dell’idioletto si ha nel cosiddetto processo Birmingham Six: negli anni ’70 fu compiuto un attentato terroristico molto grave a Londra e furono accusati sei ragazzi che confermarono e poi ritrattarono. Per trent’anni proclamarono la loro innocenza finché furono prosciolti da alcune prove balistiche42. Si sarebbero potuti risparmiare trent’anni di processi se si fosse dato ascolto ad un linguista, il quale aveva affermato una cosa semplicissima: se ognuno di noi possiede un suo idioletto, cioè una lingua individuale, allora le confessioni dovevano necessariamente essere state estorte. Questo perché non ci si spiegava il motivo per cui dicessero tutte la stessa cosa con le stesse parole. Se ognuno di noi ha un linguaggio diverso da quello degli altri, non è possibile che tutti gli imputati si fossero espressi alla stessa maniera43.

Si sono poi analizzati gli usi della linguistica forense (adoperata soprattutto negli USA, nel Regno Unito e con minore intensità in Germania). Essa consente di identificare l’autore di uno scritto: sperimentalmente è stato dimostrato che la linguistica forense effettivamente funziona, giacché sono state analizzate scritture da esperti linguisti i quali, senza conoscerne gli autori, sono risaliti alla paternità. Importantissima è una sentenza americana del 2000, con la quale si stabilisce che la perizia basata sull’analisi del linguaggio obbedisce ai criteri scientifici stabiliti dalla sentenza Daubert44.

Inoltre la linguistica forense consente di ricavare informazioni riguardanti l’età, il sesso, la cultura, la classe sociale di chi scrive e ogni altra informazione utile alle indagini. Vi sono indicatori dell’età, poiché ad esempio un ragazzo non scrive come un anziano. Un altro elemento identificativo è l’errore di ortografia, che non necessariamente va considerato quale simbolo d’ignoranza: può essere considerato come lapsus inconscio. Vi è esempio nel processo Magnuson del 1922: una serie di attentati dinamitardi negli USA attraverso l’invio di pacchi-bomba nella città di Marshfield, ma sul plico era scritto Marsfilld. Il poliziotto che conduceva le indagini pensò che questa fosse la pronuncia svedese. In effetti c’era un solo svedese in tutto il circondario, fu eseguita un’analisi grafologica e si scoprì che l’attentatore era proprio lo svedese45. Può darsi che fosse ignoranza. Ma non lo è di certo nel caso Marsiglia, in cui un cittadino sudamericano residente a Verona aveva denunciato aggressioni e ricezione di lettere anonime di minaccia; gli inquirenti notarono che queste lettere erano scritte utilizzando ritagli del giornale “El Pais” che è un quotidiano spagnolo; a Verona non c’è molta gente che legge questo giornale. Che l’autore delle lettere anonime fosse di etnia ispanica fu appurato sulla base del fatto che il gruppo di lettere “gl” era scritto “ll” come in spagnolo. Dalle indagini si arrivò alla conclusione che era lo stesso Marsiglia che inviava le lettere, circostanza peraltro confermata dalla confessione di costui. In questo caso, probabilmente, un vero lapsus perché si trattava di una persona colta46.

Inoltre la linguistica forense può stabilire la veridicità di una confessione o di una testimonianza: ad esempio nel caso Bentley un giovane accusato di omicidio disconobbe il suo interrogatorio dicendo che erano state riportate erroneamente dalla polizia le sue dichiarazioni. Fu notato che era ripetuta la parola “then” (“allora”), con una frequenza di gran lunga superiore rispetto alla lingua parlata e scritta inglese; si notò inoltre che era utilizzata l’espressione “I then” anziché la comune “Then I”. Ciò era strano; si prese un campione di verbali di polizia e ci si accorse che in essi era frequentissima l’espressione “I then”: era chiaro quindi che quello fosse il linguaggio dei poliziotti.

È poi possibile stabilire l’autenticità di una confessione sulla base di un’analisi statistica, la cosiddetta “stilometria” (misurazione dello stile), cioè stabilire l’autenticità di una confessione in base all’analisi del contenuto: si misura l’indice di leggibilità di una confessione (indice che misura la complessità di un testo in base ad una serie di elementi). È il caso di una confessione resa da un ragazzo sospettato di omicidio: l’indice di leggibilità della confessione era elevatissimo, mentre il ragazzo aveva un quoziente d’intelligenza bassissimo, aveva reso una confessione che non poteva capire e, sulla base di queste risultanze, fu prosciolto.

Infine la linguistica forense serve a identificare il parlatore, come ad esempio l’identificazione della voce nel corso delle intercettazioni sia ambientali sia telefoniche.

Il Dottor Vincenzo Tarantino47, dirigente medico, psicologo, grafologo, presidente del CIGME (Centro Internazionale di Grafologia Medica) ha relazionato su “Lobo frontale, morale e criminologia”. Una spiegazione fisiologica del comportamento omicida sostiene che la violenza potrebbe essere il risultato di disturbi neurologici o gravi traumi che hanno interessato il lobo frontale, che rappresenta la terza parte di tutta la corteccia cerebrale umana ed ha connessione con gli altri lobi e con strutture sottocorticali tra cui il sistema limbico. La determinazione della funzione della corteccia del lobo frontale deriva da studi di neurofisiologia (traumi e lesioni) ed elettrofisiologia. Una lesione ai lobi frontali sviluppa impulsività, aggressività, fobia, incapacità ad avere rimorsi, quindi in sostanza comporta l’assenza di freni inibitori, le convenzioni sociali sono dimenticate per lasciare spazio a comportamenti disinibiti e impulsivi, vi è una ridotta sensibilità al dolore e disinteresse per il passato e il futuro.

Importanti i collegamenti con il sistema limbico, che è parte centrale del cervello sede anatomica non solo della nostra emotività ma anche del nostro vissuto emozionale: nulla si fa se non interviene il sistema limbico. Inoltre in esso si trova un organo molto importante che è l’amigdala, la cui integrità, unitamente a quella del lobo frontale, è necessaria per un controllo degli impulsi violenti e per appropriati comportamenti sociali. Nei pazienti con lesione frontale si osserva un ridotto apprezzamento delle regole e restrizioni sociali e una tendenza all’impulsività, alla disinibizione e alla perdita di controllo con scatti di rabbia o, all’inverso, di paura e quindi alterazioni a livello comportamentale. Ebbene, si può dire che il lobo frontale non solo controlla le emozioni ma le utilizza anche per edificare la sensibilità morale: nel lobo frontale si trova l’apprendimento del timore della punizione; quando ci si accinge a violare una regola di comportamento importante, la corteccia frontale tende a impedirlo inibendo l’impulso ad agire. Se l’area frontale è danneggiata in giovane età, il cervello non sa più controllare gli impulsi in base alle regole sociali.

La prevalenza di traumi cranici è molto maggiore tra i criminali, soprattutto tra quelli violenti rispetto ai non violenti. Molti serial killer hanno subito incidenti con conseguenze sulla corteccia frontale: John Gacy fu colpito da un’altalena che gli procurò amnesie e un’epilessia psicomotoria48, Henry Lee Lucas era picchiato dalla madre (cento donne uccise)49, Gianfranco Stevanin in seguito ad un incidente subì lesioni al lobo frontale50.

Sempre in ambito di lesione al lobo frontale il Dottor Iglis Innocenti51, psicologo, esponendo il tema “Pensieri, opere e…omissioni dei nostri lobi frontali”, ha illustrato la famosa storia di Phineas Gage. Costui era caporeparto di una squadra di operai impegnati nella costruzione della linea ferroviaria Burlington-Rutland vicino a Cavendish nel Vermont (USA). Scavavano nella roccia realizzando fori profondi che riempivano di dinamite, poi inserivano una sbarra di ferro e tappavano l’entrata del foro con della sabbia, in modo che la forza dell’esplosione si dirigesse verso il masso roccioso. Il 13 settembre 1848, Phineas stava riempiendo un foro con polvere esplosiva e inserì la sbarra di ferro. Improvvisamente una scintilla bruciò la polvere esplosiva e il ferro schizzò, a grandissima velocità, dritto nel cranio di Gage, entrando da sotto l’osso di sinistra della guancia e fuoriuscendo dalla parte superiore della testa, per essere poi ritrovato e recuperato a circa trenta metri dal luogo dell’incidente. Il ferro era di un metro e dieci centimetri circa di lunghezza e tre di diametro a un’estremità, mentre l’altra estremità, più smussata, misurava circa mezzo centimetro di diametro, e pesava più di sei chilogrammi. Gage, disteso per terra, sembrava morto, ma in realtà non lo era, e sorprendentemente era cosciente e in grado di camminare entro pochi minuti dall’incidente. Fu trasportato nella casa in cui alloggiava dove fu assistito da John Martyn Harlow, il medico locale. Il 18 novembre 1848, stando al rapporto medico, Gage si era ristabilito completamente, senza neppure dolori alla testa. In realtà non era così poiché, pur potendo parlare, camminare, toccare, vedere (sebbene solo dall’occhio destro), l’equilibrio tra la sua facoltà intellettiva e le sue disposizioni animali era stato indefettibilmente compromesso. Dopo l’incidente fu descritto come bizzarro, insolente, capace di grossolane imprecazioni, poco riguardoso: una persona che fino a poco prima era considerata retta, monolitica, lavoratrice, che non bestemmiava, muta totalmente comportandosi in maniera manifestamente disinibita. La sua vita finì tra carovane circensi in Cile, morendo a San Francisco il 20 maggio 1860 a causa delle complicazioni di una crisi epilettica. Dopo circa un secolo e mezzo i coniugi Damasio studiarono il caso di Gage e cercarono di ricostruire il percorso della sbarra attraverso il cranio e scoprirono che erano stati lesionati i lobi frontali, deputati a regolare i comportamenti sociali individuali, i quali rappresentano “l’organo della civiltà”52.

Infine “I segni della menzogna: come riconoscerla”, il tema della relazione presentata dalla Dottoressa Sara Pezzuolo53, psicologa, consulente tecnico per il tribunale civile ed ecclesiastico, e componente del gruppo di ricerca SCIENZEMEDICOLEGALI. Preliminarmente è opportuna una distinzione tra comunicazione veritiera e menzognera. In quella veritiera si parte dal presupposto che ci sia una piena corrispondenza tra quello che il soggetto dice e quello che pensa, mentre nella comunicazione menzognera è presente uno scopo anti-comunicativo, nel senso che si dice qualcosa con la consapevolezza che non sia vera. Le menzogne possono concernere le più svariate motivazioni: la menzogna difensiva (per proteggere se stessi), quella d’amore (quando si tende a idealizzare la persona amata), quella psicotica (per attirare l’attenzione) che si lega a delle psicopatologie di fondo. Inoltre nell’analisi della comunicazione menzognera bisogna valutare oltre al comportamento verbale anche tutta quella serie d’informazioni provenienti da quello non verbale, come ad esempio osservare il sorriso, valutare la voce e il volto, tenere conto delle informazioni irrilevanti vale a dire informazioni che non sono state espressamente richieste. In sintesi, i fattori caratterizzanti una menzogna sono una scorretta codificazione di chi comunica, un’interferenza delle emozioni e del pensiero.

In ambito forense, il codice penale e quello di procedura penale contengono molti riferimenti alla menzogna: in particolare nel codice di rito l’articolo 194, che traccia la figura del testimone54; l’articolo 198, che stabilisce l’obbligo di rispondere secondo verità55; gli articoli 351 e 362, relativi alle persone informate sui fatti (rectius “persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini”)56 e infine l’articolo 497 secondo comma, che sancisce l’obbligo di verità con la formula del giuramento57. Nel codice penale l’articolo 371-bis, relativo al delitto di false informazioni al pubblico ministero58, l’articolo 371-ter concernente il delitto di false dichiarazioni al difensore59, l’articolo 372 relativo ai delitti di falsa testimonianza60 ed infine l’articolo 378 che prevede il delitto di favoreggiamento61.

La relatrice ha illustrato gli esiti di ricerche, dalla stessa eseguite, relativi a test elettromiografici correlati a dichiarazioni rese da alcuni soggetti. Gli individui esaminati sono stati cinquantatré studenti universitari, distribuiti in due sottogruppi, uomini e donne, di età compresa fra i venti e i trent’anni, provenienti da diverse facoltà e regioni d’Italia. Si sono applicati gli elettrodi sul capo e si è proceduto a tre misurazioni, una di elettromiografia basale, una durante l’immaginario della verità ed una durante l’immaginazione della menzogna. In seguito ad ogni misurazione sperimentale, era somministrato un questionario sulle tensioni posturali, in cui ciascun soggetto doveva indicare se avesse avvertito e con che intensità tensioni in altre parti del corpo. Era inoltre somministrato un questionario, in maniera random62, sulle sfere di contatto interpersonale, tese a valutare lo stile che un soggetto possiede quando si pone in relazione con gli altri. Erano state predisposte sei situazioni sperimentali e il soggetto era invitato a estrarne quattro; queste situazioni concernevano esperienze di vita comune: ad esempio “immagina di doverti presentare ad una persona che non conosci, presentati col tuo vero nome (e qui si inseriva la misurazione elettromiografia), presentati dicendo il nome immaginario (anche qui altra misurazione)”. In seguito alle misurazioni era somministrato il questionario sulle tensioni posturali. I risultati ottenuti sono stati una variazione dell’attività elettromiografia tra l’immaginario della verità e quello della menzogna. Tuttavia questa variazione dell’attività elettromiografica non raggiungeva un livello significativo. D’altro canto sono risultate significative le correlazioni tra i valori dell’attività elettromiografia durante l’immaginario della menzogna ed i vissuti di tensione corporea: in particolare, per quanto riguarda l’ampiezza, queste correlazioni significative si sono registrate a livello dell’ombelico, delle cosce e delle gambe, mentre per ciò che attiene la frequenza, a livello dei fianchi. Inoltre nell’analisi di ogni singola situazione si è notata una differenza significativa tra gli uomini e le donne per ciò che riguarda i vissuti di tensione corporea: “ciò significa che le donne sentono di più la menzogna”. In particolare, questo vissuto di maggior tensione corporea, le donne lo avvertivano nelle zone del volto.

La relatrice ha terminato i lavori auspicando un ampliamento degli esperimenti al fine di poter pervenire a risultati rilevanti su un campione molto più elevato di quello sul quale si è trovata a condurre le proprie ricerche.

 

Barbara Mezzano*

Alessandro Passaro*

7 Lombroso nel 1872 si convinse di avere trovato conferma alle sue ipotesi sulla delinquenza atavica nel corpo di Giuseppe Villella, un brigante calabrese morto settantenne il cui cranio, all’esame autoptico eseguito dallo stesso Lombroso, presentava una fossetta anomala, la famosa fossetta occipitale mediale “così sviluppata come nei rosicchianti”. […] “Alla vista di quella fossetta mi apparve d’un tratto come una larga pianura sotto un infinito orizzonte, illuminato il problema della natura del delinquente, che doveva riprodurre ai nostri tempi i caratteri dell’uomo primitivo giù giù sino ai carnivori.” (LOMBROSO, 1906).

Vedasi anche http://www.museocriminologico.it/villella.htm e http://66.29.11.37/nc/index.php?rubrica=altro&id=152.

8 http://dpg.psy.unipd.it/sch_docenti.php?id=114.

9Do We Have Free Will?”, in B. Libet, A. Freeman, K. Sutherland, The Volitional Brain: Towards a Neuroscience of Free Will, Imprint Academic Thoverton, 1999. Vedasi inoltre http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=Libet.html.

 

10 Per approfondimenti http://www.doc.unifi.it/02_ts.html e inoltre http://www.molecularlab.it/news/view.asp?n=3278.

11Doing the right thing: a common neural circuit for appropriate violent or compassionate behavior”, J.A. King, R.J. Blair, D.G. Mitchell, R.J. Dolan, N. Burgess, 2005.

Si veda http://www.ncbi.nlm.nih.gov/sites/entrez?cmd=Retrieve&db=PubMed&list_uids=16307895&dopt=Abstract.

12An fMRI Investigation of Emotional Engagement in Moral Judgment”, J.D. Greene, R.B. Sommerville, L.E. Nystrom, J.M. Darley, J.D. Cohen, 2001.

Si veda http://www.csbmb.princeton.edu/ncc/PDFs/Moral%20Reasoning/Greene%20et%20al%20(Science%2001).pdf.

13 Si veda http://laral.istc.cnr.it/wiva3/abstract/galleseWIVA3.pdf e inoltre http://web.tiscali.it/freniszero/gallese.htm.

 

14Neuroscience and legal determination of criminal responsibility”, N. Eastman, C. Campbell, 2006.

15 Si parla in tal senso di funzione retributivistica della pena.

16 In base alla teoria denominata “Nuova difesa sociale” sviluppatasi negli anni ’50 e che ha come fautore Marc Ancel, assume primario rilievo il libero arbitrio, in cui peraltro il riconoscimento della libertà e responsabilità dell’individuo deve tener conto della concreta realtà umana e sociale in cui egli si trova a vivere, e quindi degli eventuali condizionamenti economici e ambientali a cui ciascuno è esposto. […] La politica penale propugnata dalla Nuova Difesa Sociale impone inoltre allo stato precisi doveri, tra cui l’obbligo di reintegrare l’individuo che ha commesso il reato in una comunità sociale che non sia oppressiva, cui corrisponde il “diritto alla socializzazione” da parte dei cittadini”. Vedasi Compendio di Criminologia, G. Ponti, Cortina, 1999, pagg. 139-140.

17 In tal senso si parla, invece, di funzione preventiva della pena.

18 Diritto penale (Parte generale), G. Fiandaca-E. Musco, Zanichelli, 2001, pag. 648. Peraltro nell’ambito della funzione preventiva della pena può effettuarsi una distinzione tra funzione general-preventiva, affidata alle pena strictu sensu, e funzione special-preventiva, affidata alla misura di sicurezza diretta a neutralizzare la pericolosità sociale del reo ed ha come scopo quello di evitare che uno stesso soggetto incorra nella commissione di futuri reati.

19 Tale articolo al secondo comma così dispone: “Salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”.

20 Il secondo comma dell’articolo 133 del codice penale prevede infatti: “Il giudice deve tener conto, altresì della capacità a delinquere del colpevole desunta: 1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; […]”.

 

21 Art. 85 c.p. Capacità d’intendere e di volere. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. E’ imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere.

Questa definizione ha bisogno di essere chiarita e precisata. “La capacità d’intendere non è la semplice attitudine del soggetto a conoscere ciò che si svolge al di fuori di lui, ma la capacità di rendersi conto del valore sociale dell’atto che si compie”. Consiste cioè nella capacità di apprezzamento e di previsione della portata delle proprie azioni od omissioni sia sul piano giuridico che su quello morale. “Per capacità di volere, invece, si intende la attitudine della persona ad esercitare in modo autonomo le proprie scelte resistendo agli impulsi”, in definitiva la capacità di autodeterminarsi. Affinché sussista l’imputabilità occorre la presenza di entrambe le facoltà appena menzionate.

Si veda Manuale di diritto penale (Parte generale), F. Antolisei, Giuffrè, 2000, pag. 608.

23 http://prowo.uni.wroc.pl, urszula.jola@libero.it.

24 Professore ordinario, direttore Cattedra di Criminalistica presso la facoltà di Legge, Amministrazione ed Economia della Università di Wroclaw.

25 Professore straordinario, coordinatore dell’Istituto di Legge Medica presso la Cattedra di Medicina Giudiziaria della Università di Wroclaw.

27 Nel nostro sistema processuale penale si distinguono i mezzi di prova dai mezzi di ricerca della prova: i primi, vale a dire esami dei testimoni e delle parti, confronti, ricognizioni, esperimenti giudiziali, perizie e documenti, si caratterizzano per l’attitudine ad offrire al giudice risultanza probatorie direttamente utilizzabili in sede di decisione, cioè rappresentano il fatto da provare e quindi sono fonti di convincimento del giudice; i secondi, vale a dire, ispezioni, perquisizioni, sequestri ed intercettazioni, non sono fonti di convincimento, ma rendono possibile acquisire cose materiali, tracce o dichiarazioni dotate di attitudine probatoria da portare all’attenzione del giudice.

28 La ricognizione è un mezzo di prova mediante il quale un soggetto viene chiamato ad identificare una persona, una cosa, una voce, un suono o qualunque altro oggetto di percezione sensoriale.

29 Questo discorso vale per il teste in buona fede, cioè per il soggetto motivato a collaborare, poiché per il testimone reticente intervengono altri elementi, anche da un punto di vista motivazionale.

 

30 Di seguito si riportano le norme relative alla ricognizione contenute nel codice di procedura penale tutt’ora in vigore. Art. 213. RICOGNIZIONE DI PERSONE. ATTI PRELIMINARI. Quando occorre procedere a ricognizione personale, il giudice invita chi deve eseguirla a descrivere la persona indicando tutti i particolari che ricorda; gli chiede poi se sia stato in precedenza chiamato a eseguire il riconoscimento, se, prima e dopo il fatto per cui si procede abbia visto, anche se riprodotta in fotografia o altrimenti, la persona da riconoscere, se la stessa gli sia stata indicata o descritta e se vi siano altre circostanze che possano influire sull’attendibilità del riconoscimento. […].

Art. 214. SVOLGIMENTO DELLA RICOGNIZIONE. Allontanato colui che deve eseguire la ricognizione, il giudice procura la presenza di almeno due persone il più possibile somiglianti, anche nell’abbigliamento, a quella sottoposta a ricognizione. Invita quindi quest’ultima a scegliere il suo posto rispetto alle altre, curando che si presenti, sin dove è possibile, nelle stesse condizioni nelle quali sarebbe stata vista dalla persona chiamata alla ricognizione. Nuovamente introdotta quest’ultima, il giudice le chiede se riconosce taluno dei presenti e, in caso affermativo, la invita a indicare chi abbia riconosciuto e a precisare se ne sia certa. […].

 

31 Per approfondimenti http://www.truthinjustice.org/anderson.htm, http://www.innocenceproject.org/Content/49.php e http://www.time.com/time/specials/2007/article/0,28804,1627368_1627366_1627363,00.html.

32 Art. 361c.p.p. INDIVIDUAZIONE DI PERSONE E DI COSE. Quando è necessario per la immediata prosecuzione delle indagini, il pubblico ministero procede alla individuazione di persone, di cose o di quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale. […].

33 Da notare che tale attività ricognitiva, compiuta nel corso delle indagini preliminari, integra un semplice elemento di prova ma può acquisire un valore di prova vera e propria ex articolo 512 del codice di rito allorquando la ricognizione per fatti o circostanze imprevedibili diventi irripetibile. Tale possibilità rende particolarmente grave il fatto che le attività ricognitive del pubblico ministero possano svolgersi senza la presenza del difensore, posto che non rientrano tra gli atti preliminari per cui gli articoli 364 e 365 dello stesso codice prevedono la presenza del difensore. Bene si comprende quindi l’importanza di criteri severi e adeguati utilizzati dagli inquirenti per una corretta acquisizione di elementi che poi potranno essere determinanti per un eventuale giudizio di colpevolezza dell’indagato.

 

35 La discordanza può riguardare sei diversi piani: direzione, dimensione, forma, spazio, pressione e movimento. Tale discordanza si può avere su tutte le sei categorie o su alcune di esse. Bastano due discordanze per entrare nell’anomalia caratteriale; poi l’anomalia caratteriale con altre combinazioni grafiche può far capire ancora meglio su che versante si svolge questa personalità.

 

37 Anche l’Italia ha il suo unabomber (agisce in Veneto): però chiamarlo unabomber non è appropriato perché “una” vuol dire Università Airlines, in quanto il soggetto americano inviava gli ordigni nelle università e nelle compagnie aeree. La denominazione è quindi completamente inappropriata e la utilizziamo per esterofilia.

38 Per approfondire http://www.serial-killer.it/serialkiller.aspx?aree_id=1&sottoaree_id=9&lang=ita&contenuti_id=47 e http://it.wikipedia.org/wiki/Theodore_Kaczynski

40 http://flcasebook.wiki-site.com/index.php/Theodore_Kaczynski.

41 Per un resoconto dettagliato si consulti http://www.universalteacher.org.uk/lang/unit1.htm.

42 http://news.bbc.co.uk/onthisday/hi/dates/stories/march/14/newsid_2543000/2543613.stm.

43 A tal proposito si è parlato di impronte digitali linguistiche, mentre secondo altri studiosi si potrebbe anche parlare di un DNA linguistico nel senso che come la genetica analizza il DNA in una sequenza di una stringa di quattro caratteri, così anche la linguistica in ambito forense analizza la successione delle lettere dell’alfabeto nelle sue svariate ed infinite combinazioni. Il paragone sembra un po’ eccessivo, sembrerebbe più opportuno parlare di impronte digitali linguistiche.

 

44 Sappiamo che la sentenza Daubert stabilisce i criteri di ammissibilità di una prova scientifica. Si veda a tal proposito http://www.crimine.it/pagina.asp?ID=187.

47 www.vincenzotarantino.com, tarantinovincenzo1@virgilio.it.

 

52 http://www.psicolab.net/index.asp?pid=idart&cat=2&scat=22&arid=15.

54 Art. 194 c.p.p. Oggetto e limiti della testimonianza. Il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova. Non può deporre sulla moralità dell’individuo, salvo che si tratti di fatti specifici, idonei a qualificarne la personalità in relazione al reato e alla pericolosità sociale. […].

Il testimone è esaminato su fatti determinati. Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti.

55 Art. 198 c.p.p. OBBLIGHI DEL TESTIMONE. Il testimone ha l’obbligo di presentarsi al giudice e di attenersi alle prescrizioni date dal medesimo per le esigenze processuali e di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte.

Il testimone non può essere obbligato a deporre sui fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale.

56 Art. 351 c.p.p. ALTRE SOMMARIE INFORMAZIONI. La polizia giudiziaria assume sommarie informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini. Si applicano le disposizioni del secondo e terzo periodo del comma 1 dell’articolo 362. […].

Art. 362 c.p.p. ASSUNZIONE DI INFORMAZIONI. Il pubblico ministero assume informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini. Alle persone già sentite dal difensore o dal suo sostituto non possono essere chieste informazioni sulle domande formulate e sulle risposte date. […].

57 Art. 497 c.p.p. ATTI PRELIMINARI ALL’ESAME DEI TESTIMONI. I testimoni sono esaminati l’uno dopo l’altro nell’ordine prescelto dalle parti che li hanno indicati.

Prima che l’esame abbia inizio, il presidente avverte il testimone dell’obbligo di dire la verità. Salvo che si tratti di persona minore degli anni quattordici, il presidente avverte altresì il testimone delle responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: «Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza». Lo invita quindi a fornire le proprie generalità.

L’osservanza delle disposizioni del comma 2 è prescritta a pena di nullità.

 

58 Art. 371bis c.p. FALSE INFORMAZIONI AL PUBBLICO MINISTERO. Chiunque, nel corso di un procedimento penale, richiesto dal pubblico ministero di fornire informazioni ai fini delle indagini, rende dichiarazioni false ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito, è punito con la reclusione fino a quattro anni. […].

59 Art. 371ter c.p. FALSE DICHIARAZIONI AL DIFENSORE. Nelle ipotesi previste dall’articolo 391bis, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, chiunque, non essendosi avvalso della facoltà di cui alla lettera d) del comma 3 del medesimo articolo, rende dichiarazioni false è punito con la reclusione fino a quattro anni. […].

60 Art. 372 c.p. FALSA TESTIMONIANZA. Chiunque, deponendo come testimone innanzi all’Autorità giudiziaria, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato, è punito con la reclusione da due mesi a sei anni.

61 Art. 378 c.p. FAVOREGGIAMENTO PERSONALE. Chiunque, dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce l’ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuta taluno a eludere le investigazioni dell’Autorità, o a sottrarsi alle ricerche di questa, è punito con la reclusione fino a quattro anni. […].

62 Il questionario cioè poteva essere somministrato prima o dopo l’esperimento.

* Gruppo di Ricerca SCIENZEMEDICOLEGALI della Università degli Studi di Siena fondato e diretto dal Prof. Cosimo Loré, www.scienzemedicolegali.it

 

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