Data anche l’ultima e recente vicenda che ha visto protagonista un padre mi sembra opportuno proporre una riflessione sulla tematica del suicidio nei casi di separazione e affidamento dei figli. Come sappiamo la separazione coniugale è un fenomeno complesso dal quale non possono essere isolate una molteplicità di variabili tra cui il legame che unisce un genitore ad un figlio, il lutto per la fine di una relazione e la costruzione di una nuova identità, le variabili quali sentimenti di vendetta o rimorso che caratterizzano questi processi etc. Secondo i dati ISTAT dal 1995 al 2008 sono aumentati sia le separazioni che i divorzi. Gli affidi prevalenti sono l’affidamento congiunto, l’affido esclusivo alla madre e rarissimamente l’affido al padre. Stando sempre ai dati ISTAT, le statistiche di riferimento ai merito al suicidio nel 2007 vedono 272 decessi di persone separate e 1.125 decessi di persone coniugate. Le motivazioni che determinano la scelta di morire sono, sempre riferite al 2007, n. 289 per motivi affettivi1. Il gesto suicida è un gesto eclatante che desta, nella coscienza di ognuno di noi, un pensiero critico ed una riflessione. Il gesto ultimo di una persona non dovrebbe servire solo a fare cronaca ma dovrebbe far rifletter sulle motivazioni conscie e inconscie che hanno portato quella persona a decidere di interrompere la vita. I media giocano un ruolo particolare in questo contesto. Ci possiamo chiedere ad esempio che informazioni dà sulla persona? Come questa viene presentata? Come si pone di fronte al problema dei suicidi? Come definisce le motivazioni che hanno portato a tale scelta? A volte il suicidio passa come notizia di cronaca ma non solleva coscienze popolari, interrogativi etc. Sembra che ci si fermi di fronte all’atto del suicidio e niente di più niente di meno viene fatto per cogliere le motivazioni che hanno determinato la scelta di morire, come se l’atto in sé per sé avesse più ragione di essere della motivazione che lo ha determinato. Una si tale informazione, oltre che essere fuorviante rischia di essere letta come l’unica alternativa possibile a, ad esempio, una separazione altamente conflittuale.. Troppo spesso, secondo il parere della sottoscritta, si fa disinformazione celandosi dietro alla parola informazione. Urlare ai quattro venti che quel padre si è suicidato senza cercare di entrare nel profondo del gesto è un’analisi superficiale. Se la giurisprudenza, i giudici etc. non si fermano un attimo sulle devastanti conseguenze della separazione niente mai cambierà. Esistono spot sulle stragi del sabato sera, sui sinistri stradali, sulle vittime del lavoro e le vittime di una separazione dove trovano spazio? Cosa fanno i media? Dove si colloca l’informazione rispetto al genitore rimasto solo? Solitamente quando i media descrivono un gesto estremo di un genitore non forniscono informazioni in merito ai supporti disponibili e quindi non “sponsorizzano” chi si trova in difficoltà a richiedere aiuto presso i centri predisposti. Di conseguenza, parlare “della soluzione suicidio” a chi in quel momento è particolarmente vulnerabile al messaggio, non fa altro che fornire la “soluzione” al problema. Secondo alcune raccomandazioni dell’American Association of Suicidology dell’American Foundation for Suicide Prevention e Annenberg Public Policy Center (2002) è auspicabile che certe stereotipie connesse al linguaggio in cui una notizia viene portata siano modificate. Ad esempio la causa di morte dovrebbe comparire nel corpo della storia e non nei titoli, inoltre nel corpo della notizia è preferibile scrivere “colui che è morto a causa del suicidio” piuttosto che il “suicida” in quanto tale espressione riduce le persone al mondo della morte oppure denota un comportamento criminale. Tutto ciò si realizza perché la propaganda del suicidio ha effetti sicuri del medesimo gruppo di soggetti al quale apparteneva colui che si è suicidato, nondimeno, “i dati della letteratura hanno In tale numero sono compresi soggetti maschi e femmina; confermato ampiamente l’azione delle stereotipie mediatiche nell’indurre comportamenti imitativi in soggetti vulnerabili”2. E’ importante quindi affermare che ci possono essere risorse disponibili per il trattamento e la prevenzione del comportamento suicidario, è importante chiedersi come il familiare, il minore, comprende la notizia, è importante che le cause che determinano una si tale soluzione vengano risolte con la stesa premura in cui si tutela o si cerca di tutelare il valore della vita umana in altri contesti. A tal proposito mi preme segnalare il sito www.prevenireilsuicidio.it; solo alla morte non c’è soluzione… a tutto il resto si può provvedere. Un pensiero a tutti coloro che non ci sono più.
Separazione affido
Nonostante spesso e volentieri si faccia riferimento, con il termine mobbing a vessazioni poste in essere sul posto di lavoro, possiamo allargare tale concetto anche al contesto familiare. Concordo, infatti, con la cerchia degli studiosi che, partendo dal significato etimologico del temine, ne ravvedono somiglianze tra ciò che accade nel posto di lavoro come azione mobbizzante e ciò che accade nell’ambiente familiare nei casi di separazione.
Come sappiamo il mobbing consiste in un “rendere la vita impossibile all’altro” e pertanto, una tale situazione non infrequentemente si riscontra nei casi di separazione e divorzio.
Secondo G. Giordano, il mobbing genitoriale “consta dell’adozione da parte di un genitore, separato o in via di separazione dall’altro genitore, di comportamenti aggressivi preordinati e/o comunque finalizzati ad impedire all’altro genitore, attraverso il terrore psicologico, l’umiliazione e il discreto familiari, sociali, legali, l’esercizio della propria genitorialità, svilendo e/o distruggendo la sua relazione con i figli, impedendogli di esprimerla socialmente e legalmente, intromettendosi nella sua vita privata”.
Tra le categorie che servono per discriminare il mobbing familiare due appartengono all’estrinsecazione della propria genitorialità:
-
Mobbizzazione della relazione genitore-figlio;
-
Mobizzazione dell’esprimersi sociale e legale della genitorialità;
Le azioni poste in essere sono quindi: sabotaggi delle frequentazioni con il figlio, esclusione dai processi decisionali che riguardano il minore (tipo scuola, visite mediche etc.,) minacce, campagna di denigrazione e delegittimazione familiare e sociale, mettere in giro voci diffamatorie sul conto del genitore mobbizzato, farlo oggetto di denunce e aggressioni legali varie etc..
Una sentenza in tema di mobbing genitoriale è quella della Corte di Appello di Torino del 21 febbraio 2001, nella quale si legge “I comportamenti dello S. (il marito) erano irriguardosi e di non riconoscimento della partner: lo S. additava ai parenti ed amici la moglie come persona rifiutata e non riconosciuta, sia come compagna che sul piano della gradevolezza estetica, esternando anche valutazioni negative sulle modeste condizioni economiche della sua famiglia d’origine offendendola non solo in privato ma anche davanti agli amici, affermando pubblicamente che avrebbe voluto una donna diversa e assumendo nei suoi confronti atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi, con i quali la invitava ripetutamente ed espressamente ad andarsene di casa” e che “al rifiuto, da parte del marito, di ogni cooperazione, accompagnato dalla esternazione reiterata di giudizi offensivi, ingiustamente denigratori e svalutanti nell’ambito del nucleo parentale ed amicale, nonché delle insistenti pressioni – fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing – con cui lo S. invitava reiteratamente la moglie ad andarsene”, la Corte conclude che al marito “deve essere ascritta la responsabilità esclusiva della separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri (diversi da quelli di ordine patrimoniale) che derivano dal matrimonio, in particolare modo al dovere di correttezza e fedeltà”.
In qualche modo possiamo dire che il mobbing genitoriale è l’anticamera per lo sviluppo della P.A.S. od ancora che la PAS sia il grado estremo della realizzazione del mobbing genitoriale.
Come ben sappiamo la PAS arriva a distruggere totalmente il rapporto padre-figli:
“Sul futuro del minore alienato pende poi il rischio di andare incontro a gravi disagi psicologico e/o comportamentali socialmente devianti specie se si considera che il genitore più frequentemente alienato è il padre, e che le statistiche sul disagio giovanile sono, al proposito, eloquenti. Non ha avuto contatti significativi con il padre: il 63% dei giovani suicidi, l’85% dei detenuti per lunga condanna, l 72% dei giovani omicidi, il 60% degli uomini condannati per violenza carnale, il 70% dei detenuti per lunghe condanne pure, il 90% dei “senza fissa dimora”, il 70% dei giovani avviati ai riformatori. Figli che vivono in assenza di contatti con il padre, hanno un rischio quaranta volte più alto, rispetto a quelli vissuti con il padre, di essere vittime di abuso sessuali, il 69% dei bambini abusati è vissuto senza contatti significativi con il padre; i “fatherless” costituiscono, infine, la categoria più rappresentata tra i depressi (dati governativi statunitensi, raccolti da Claudio Ris, Il padre assente l’inaccettabile”1.
1 Fonte www.psychomedia.it Contributo di G. Giordano;
La complementarietà genitoriale nell’educazione dei figli in caso di separazione e divorzio: il ruolo del padre nella crescita del minore
Nel nostro ordinamento, l’art. 30 della Costituzione recita: “E’ dovere e diritto del genitore mantenere, educare e istruire i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”.
Se da anni i legislatori cercano di contenere le molteplici problematiche della famiglia, non dobbiamo perdere di vista che comunque la famiglia nasce, si sviluppa, si concretizza e si modifica all’interno di dinamiche relazionali. Le statistiche degli ultimi anni evidenziano un numero crescente di separazioni accompagnate da difficoltà, conflitti con la conseguente necessità di occuparsi di questi eventi avvalendosi di approcci multidisciplinari (sociali, culturali e psicologici, etc.).
Con il termine “Bigenitorialità” nel 1989 la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia definisce il minore come soggetto di diritti e non solo quale destinatario di protezione e tutela; in tal senso viene ribadito e ufficializzato il fatto che i figli hanno diritto di ricevere affetto, educazione e cure da entrambi i genitori. Succede però che l’intreccio tra i legami di coniugalità e di genitorialità venga messo a dura prova in caso di separazioni e divorzi, quando, l’esercizio delle funzioni genitoriali, critico alle volte anche nelle famiglie unite, deve essere gestito modificato e rinnovato.
Nel considerare gli effetti della vicenda separativa occorre evidenziare che l’elemento patologizzante non è la separazione in sé, ma il tipo e la qualità di relazione che caratterizza le coppie che si separano e che investe, di conseguenza, i minori. Da anni la ricerca psicologica in ambito di separazioni prova ad evidenziare che il fattore preoccupante è connesso alla perdita di un genitore, spesso del padre, e, di conseguenza, alla deprivazione delle funzioni genitoriali che gli competono.
All’interno del nucleo familiare il ruolo della figura materna è sempre stato riconosciuto come inconfutabile1, la funzione della figura paterna, al contrario, ha subito progressivi mutamenti a secondo del contesto storico e socio-culturale con il quale si è dovuta confrontare.
La psicologia dello sviluppo infantile ha posto molta attenzione sulle relazioni interpersonali che si instaurano tra genitori e figli tuttavia, forse per complessità metodologica, ha privilegiato l’osservazione di relazioni diadiche (madre-figlio, padre-figlio) a discapito della relazione triadica che definisce e caratterizza la famiglia. Stern (1992) con le sue ricerche ha dimostrato che la relazione madre-figlio e padre-figlio è fortemente influenzata dalle dinamiche della coppia genitoriale. Ad esempio, lo stesso autore, afferma che una madre può essere molto competente quando è sola con il bambino o in presenza di altre figure per lei significative (ad esempio la propria madre), e può non esserlo in presenza del marito con il quale ha attivo un conflitto. Pertanto egli conclude che una relazione conflittuale tra genitori influenza negativamente anche il rapporto padre-figlio.
La dinamica sopra brevemente descritta, è da tradursi anche in positivo nel momento in cui un genitore poco competente può acquisire maggiori capacità grazie a stimoli provenienti da un’adeguata collaborazione coniugale.
La figura paterna ricopre importanti funzioni fin dai primi mesi di vita dei figli ma il suo ruolo va osservato all’interno della triade: la qualità della relazione dei genitori è fondamentale per consentire alla madre e al bambino di svolgere adeguatamente il proprio compito evolutivo. Con la prima infanzia e con l’adolescenza le relazioni dirette madre-figlio padre-figlio assumono la stessa importanza (F. Baldoni, 2005). Come sottolinea Bollea (1999) nei primi anni di vita il bambino porta avanti il suo continuo lavoro di adattamento al mondo esterno prevalentemente attraverso il padre, sia nell’imitarlo, sia nell’accettare o meno le imposizioni. L’instaurarsi di una relazione significativa, sicura e costante con il padre permette un adeguato sviluppo sociale ed emotivo dei figli. Caratteristica fondamentale della funzione paterna è proprio quella di favorire il processo di separazione dalla madre e introdurre il figlio, attraverso il linguaggio logico, al pensiero razionale e al rispetto delle regole nell’universo delle relazioni sociali. Al padre è simbolicamente affidato il compito di traghettare gradualmente il figlio dal territorio materno a quello della società favorendo l’emancipazione dall’infanzia e il suo ingresso nel mondo adulto. In altre parole è il padre che contiene e progressivamente delimita quel rapporto stretto e totalizzante esistente tra madre e figlio. Ogni genitore ha un proprio ruolo e solo insieme essi si integrano e si completano2. Il padre in quanto portatore di un modello responsabile e capace di assumere decisioni, costituisce una figura determinante nella prevenzione di eventuali comportamenti antisociali; la madre, in quanto figura portatrice di affetto e fiducia, è fondamentale per favorire il dialogo e la stima di sé. Il padre, inoltre, favorisce l’evoluzione dell’affettività adulta, in quanto è proprio l’amore paterno, non scontato ma condizionato, che va conquistato e quindi richiede uno sforzo che si avvicina all’amore maturo. Il rapporto padre-figlio che si delinea sin dai primissimi anni di vita, modellerà l’immagine che il figlio avrà di sé stesso e degli altri alimentando la dimensione profonda dei suoi sentimenti. In età scolare la mancanza di un solido rapporto con il padre, determina forti vissuti di ansia nel bambino soprattutto di fronte ad una situazione nuova come quella scolastica, dove deve rapportarsi con figure nuove e con nuove autorità. La valenza della figura patera sembra assumere un ruolo decisivo anche tra i fattori del comportamento delinquenziale degli adolescenti, soprattutto in relazione al fatto che, nella nostra società, il padre costituisce l’istanza morale fondamentale per la formazione di una “coscienza etico-sociale” (Vegetti Finzi S., A.M. Battistin 1996). L’opinione comune è che oggi il padre stia cercando di trovare altre dimensioni nei vari ambiti concernenti l’educazione dei figli e queste avvalorano una sua più rilevante partecipazione. Alcuni padri dimostrano notevoli capacità di provvedere anche a figli molto piccoli. Negli ultimi anni si è assistito quindi alla nascita del cosiddetto “padre partecipante”, cioè colui che si allontana dalla figura di padre padrone per creare con i figli una relazione fondata sull’affettività e sulla condivisione. Ne consegue una figura paterna che mantiene le sue prerogative maschili ma che si dimostra anche disponibile a prendersi cura dei propri figli in modo autonomo e responsabile (Andolfi, 2001).
L’importanza educativa dei padri sembra essere stata per lungo tempo sottovalutata dal sistema giudiziario, per cui, tranne nei casi di malattia psichiatrica, uso di droga e presenza di una relazione extraconiugale, la madre veniva automaticamente considerata la depositaria principale della tutela del minore3. Già nel 1986 ad un convegno nazionale sulla paternità M. Quilici dichiarava “I padri sono cambiati ma i giudici non se ne sono accorti”. Solamente nel 2006 con l’introduzione dell’articolo 155 della legge 54 viene inserito l’affido condiviso come forma privilegiata da valutare, per cui i Giudici si trovano spesso a prendere in considerazione la possibilità che i figli minori rimangano affidati ad entrambi i genitori. La nuova legge attesta che anche in caso di separazione personale dei genitori i figli hanno diritto di mantenere un rapporto equilibrato con ciascuno di essi e che la potestà genitoriale è esercitata da entrambi. Questo significa che, almeno formalmente, il ruolo educativo del padre è considerato indispensabile per la crescita dei figli. La paternità e la maternità, anche se costruite in modo diverso, vengono comunque messe a dura prova dalla separazione coniugale4, è bene quindi cercare di capire quali sono le dinamiche che coinvolgono la famiglia in questo contesto. Gli studi di Emilia Dowling e Gill Barnes (2004), di recente attuazione, partono dal presupposto che non esiste nessuna relazione fissa tra il genere di un genitore e ciò che è in grado di fare o non fare per i figli. Gli stessi autori, nel campione di famiglie separate che hanno partecipato alle loro ricerche, evidenziano una vasta gamma di capacità negli uomini nell’essere padri. Uno dei loro progetti di ricerca sottolinea che sono molti i fattori che influenzano lo sviluppo dei ruoli paterni dopo il divorzio. Ad esempio, la capacità degli uomini di essere flessibili nell’organizzazione e nella cura dei figli è correlata alla loro capacità di assumere modalità genitoriali precedentemente definite come appartenenti alle donne, inoltre l’avere avuto un buon padre e un continuo sostegno da parte di uomini nella stessa situazione, fa un’enorme differenza. Alcuni studi sostengono che le donne forniscono tuttora il contesto in cui gli uomini apprendono le competenze genitoriali, ed è probabile che, questo fattore costituisca solo uno degli aspetti che portano ad un’alta incidenza di abbandono del contatto padre-figli nei primi due anni dopo il divorzio. Quello che alcuni padri fanno è quasi costantemente condiviso o dipendente dai suggerimenti della partner, ne risulta che il comportamento paterno è inevitabilmente legato alla condizione di coppia. Va di conseguenza che, quando la coppia è in crisi, il padre può sentirsi insicuro su come comportarsi. Secondo la Dowling i padri, in assenza delle loro ex mogli, hanno concezioni molto diverse sul tempo da dedicare ai figli per sentirsi competenti e fiduciosi come genitori, e questo è connesso al grado in cui la madre permette loro di sviluppare il proprio stile genitoriale dopo il divorzio, indipendente da ciò che lei stessa considera il comportamento “corretto”. Per alcuni padri che non sono stati in grado di sviluppare competenze adeguate, essere criticati dalla ex moglie crea un grave stress. Il primo anno dopo il divorzio può costituire un periodo particolarmente importante per ristrutturare i legami genitoriali e per stabilire la modalità di coinvolgimento del padre. Alta conflittualità e bassa cooperazione in questo periodo, infatti, possono interferire con lo sviluppo di nuove modalità genitoriali.
Il fatto che un padre non viva con i figli non significa che egli non giochi un ruolo attivo nella loro vita o nella mente di questi. Per alcuni bambini, che trovano difficile assimilare l’assenza quotidiana del padre, questa assenza può divenire una presenza più forte di quando vivevano insieme
L’evento separazione mette quind in pericolo un intero sistema di relazioni e di ruoli ben stabiliti, e molto difficile risulta quindi essere il ripristino degli equilibri.
Ogni transizione è un passaggio da una condizione data a una condizione nuova che ripropone ai familiari la necessità di rielaborare le relazioni e dare loro nuovi significati alla luce delle mutate condizioni (Andolfi, 1999). Appare evidente il collegamento nella trasformazione del ruolo di padre, che con l’evento separazione si trova a dover far fronte ad innumerevoli cambiamenti nella forma e nella sostanza, e la necessità di creare nuove modalità di relazione. In alcuni casi il mantenimento della cogenitorialità è messo a rischio fin dai primi momenti in cui la coppia decide di separarsi, il conflitto coniugale spesso si riflette sulle competenze genitoriali, e i figli si trovano ad essere triangolati in giochi di potere e di vendetta. In questo senso va considerato che i genitori, nel rivolgersi ad un istituzione esterna, sono alla ricerca di un contenimento e di un sostegno, che può non risolversi nelle aule dei tribunali, e che una lettura in termini psicologico-relazionali può essere utile per il contenimento del conflitto. Una possibilità parallela a quella giudiziale e particolarmente utile, in alcuni casi, può essere la Mediazione Familiare
La ricerca compiuta da R. Emery, nello Stato della Virginia, negli anni 1999/2000 è un esempio di come, la Mediazione Familiare, possa essere un percorso valido e uno strumento protettivo delle relazioni, in particolare della relazione padre-figlio in seguito alla separazione coniugale.
Alcune separazioni portano nella relazione conflitti cristallizzati e forti battaglie giudiziarie che spesso vengono fatte in nome de quei figli considerati “l’unica ragione di vita”. A tal punto è importante far riferimento ad alcuni contributi scientifici che mirano ad evidenziare le conseguenze della deprivazione della figura paterna, sullo sviluppo psicofisico dei figli.
In Acta Pediatrica 97 (2), 153-158, febbraio 2008 esperti del settore hanno studiato gli effetti del coinvolgimento paterno sul conseguente sviluppo dei figli ottenendo il seguente risultato “L’impegno del padre sembra avere effetti differenti sui risultati desiderabili: riduce la frequenza di problemi comportamentali nei ragazzi, riduce i problemi psicologici nelle giovani donne, migliora lo sviluppo cognitivo, mentre da un lato diluisce la delinquenza e lo svantaggio economico in famiglie dal basso profilo socioeconomico”. Altrettanto interessanti sono le conclusioni alle quali sono giunti i professionisti “E’ evidente l’influenza positiva del coinvolgimento paterno sui risultati sociali, comportamentali e psicologici della prole. Sebbene la letteratura provveda a fornire una definizione solo sufficiente per l’impegno paterno (interazione diretta con il bambino), come una specifica forma di effettivo coinvolgimento paterno, vi è sufficiente conferma per esortare sia i professionisti che i responsabili politici a migliorare le circostanze favorenti il coinvolgimento paterno”. Ed ancora “Negli USA molti studi hanno evidenziato i danni provenienti dall’assenza del padre – o per scelta del genitore o per volontà ostativa della genitrice – e tra questi sottolineerei American Journal of Pubblic Health, num. 84, 1994, Sheline et al., “I ragazzi con padre assente sono a più alto rischio per comportamenti violenti” e Survey on Child Health, 1993 U.S. Department of Health and Human Services “Bambini che vivono senza un contatto con il loro padre biologico hanno il doppio delle probabilità di lasciare la scuola” . Assieme a contributi scientifici che evidenziano, sottolineano ed affermano alla comunità scientifica l’importanza della figura genitoriale paterna, numerosi sono gli studi che partono dall’esclusione della stessa nella vita dei minori per poterne studiare le conseguenze. Anziché, quindi, partire dall’assunto di valutare una correlazione positiva tra impegno paterno e sviluppo del figlio, altri autori studiano gli effetti della deprivazione paterna sui minori. Tali ricerche evidenziano che non solo la deprivazione paterna provoca un grave danno al figlio, ma, soprattutto, che il livello di accudimento con cui un genitore si occupa del figlio è direttamente correlato al grado di realizzazione esistenziale del figlio stesso. Tale concetto è ben espresso dalle parole della famosa psicologa Dionna Thompson “la guerra contro il padre è in realtà una guerra contro i figli; il punto non è semplicemente il diritto dei padri o il diritto delle madri, ma il diritto dei figli di avere due genitori che si occupino attivamente della loro vita”.
Vezzetti in particolare pone l’attenzione sulla Sindrome da alienazione genitoriale (PAS) e i danni da deprivazione genitoriale che essa comporta. Altri autori si sono occupati di tale questione pervenendo a risultati diversi. A tal proposito è interessante citare uno studio pilota di A. Lubrano Lavadera e M. Marasco (2005) dal quale emergono risultati che evidenziano, su alcuni aspetti, una controtendenza rispetto alla maggioranza dei risultati ottenuti da altri ricercatori sull’argomento.
Tali autori hanno confrontato due gruppi di minori di cui il gruppo sperimentale era caratterizzato dalla presenza di PAS, l’altro senza diagnosi di PAS5.
Stando ai risultati, gli autori concludono che non è presente alcuna differenza di genere tra l’essere genitore alienante o alienato, quindi il genitore alienante può essere indistintamente il padre o la madre, fondamentale è piuttosto la variabile genitore affidatario/non affidatario, per cui il genitore alienante è sempre quello affidatario6. Altro dato risultante dalla ricerca riguarda la condizione di disagio psichico vissuta dai minori. Infatti, dai dati del campione, viene evidenziata una condizione di disagio psichico per i minori coinvolti senza che venga registrata alcuna differenza tra quelli con diagnosi di PAS e quelli senza PAS7. Questo indica, secondo gli autori, che la PAS non produce effetti più “dannosi” rispetto a quelli provocati generalmente da separazioni altamente conflittuali. Alla luce dei risultati ottenuti, gli autori, fanno alcune considerazioni in merito che ci vedono concordi8. Tuttavia gli stessi autori evidenziano alcuni limiti della ricerca, come l’esiguità del campione, che non consente di fare analisi statistiche più complesse, e il fatto che le famiglie appartengono tutte alla stessa popolazione del Lazio, per cui non può essere fatta generalizzazione a livello nazionale.
Tali studi sul ruolo dei padri, sulle conseguenze dell’assenza della figura paterna, sulle dinamiche conscie e inconscie che si sviluppano allorché la coppia coniugale si separa, dovrebbero essere maggiormente incentivati proprio alla luce di un’apertura che deve essere manifestata e applicata anche all’interno delle Aule dei Tribunali. Da qui l’esigenza che il consulente sia consapevole dei limiti delle ricerche ma anche e soprattutto dei giochi di coalizione e triangolazione nel quale si può trovare intrappolato allorché si trova a valutare l’idoneità genitoriale.
Ciò che comunque ci preme evidenziare, in conclusione di questo contributo, è come, nonostante il padre troppo spesso sia identificato in colui che deve predisporre un assegno mensile, la sua funzione educativa e genitoriale deve essere tutelata a discapito, altrimenti, di un sano sviluppo psicofisico del minore che, come facilmente desumibile, deve essere interesse di tutta la società.
Bibliografia:
– Andolfi M. (199), La crisi della coppia. Raffaello Cortina Editore, Milano;
– Andolfi, M., (2001) Il padre ritrovato, Franco Angeli, Milano;
– Baldoni, F. (2005). Funzione paterna e attaccamento di coppia, l’importanza di una base sicura. In: Bartozzi N., Hamon C. (a cura di): Padri & paternità. Edizioni Junior, Bergamo, pp. 79-102;
– Backer A. J. (2006), Pattern of Parental Alienation Syndrome: A qualitative study of adults who were alienated from a parent as a child, The American Journal of Family Therapy, 34: 63-78;
– Backer A.J.L. (2007), Knowledge and attitudes about parental alienation syndrome: a survey of custody evaluators, The American Journal of Family Therapy, 35, 1-19;
– Bernet W. (2008), Parental alienation disorder and DSM IV, The American Journal of Family Therapy, 36, 349-366;
– Bollea, G. (1999), Le madri non sbagliano mai, Feltrinelli, Milano.
– Brent A.D. et al. (1995), Post-traumatic stress disorder in perrs of adolescent suicide victims : Predisposing factors and Phenomenology, Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psichiatry, 34;
– Bridge J.A., Goldestein T.R., Bren D.A. (2006), Adolescent suicide and suicidal behavior, Journal of child Psicology and Psychiatry, 47 (3-4), 372-94, Mar-Apr;
– Dowling E., Barnes G.(2004), Lavorare con i bambini e i genitori nel processo di separazione e divorzio, Franco Angeli, Milano.
– Emer Y R. (1994), Il divorzio. Rinegoziare le relazioni familiari, FrancoAngeli, Milano
– Flouri E. B. (2002), The Protective role of parental involvement in adolescent suicide, Crisis, 23 (1), 17-22;
-Gardner R. A. (1998), Recommendations for dealing with parents who induce a parental alienation syndrome in their children, Journal of Divorce and remarriage, Vo. 28 (3/4), 1-21;
– Gardner R.A. (2002), The empowermwnt of children in the development of parental alienation syndrome, The American Journal of Forensic Psychology, 20 (2), 5-29;
– Lubrano Lavadra A., Marasco M. (2005), “La Sindrome di Alienazione Genitoriale nelle consulenze tecniche d’ufficio: uno studio pilota”, In Maltrattamento e abuso all’infanzia, Vol. 7, n. 3, dicembre;
– McCall P.L., Land K.C. (1994), Trends in white male adolescent, young-adult and elderly suicide: Are there common underlyng structural factors? Social Science Research, 23;
– Pezzuolo S. (2010), “Questi paradossi dei padri” in http://www.personaedanno.it/cms/data/articoli/017891.aspx?abstract=true;
– Quirici, M. (1986), La paternità nella separazione e nel divorzio, in A. Del Lungo, C. Pontati (a cura di), Riscoprire il padre, Boria, Roma.
– Rossi R., Il danno da privazione del ruolo genitoriale, micro rassegna di situazioni, in www.altalex.it;
– Sarkadi A., Kristiansson R., Oberklaid F., Bremberg S. (2008), Fathers’ involvement and children’s developmental outcomes: a systematic review of longitudinal studies, in Acta Paediatrica, 97 (2), 153-158, febbraio;
– Tousignant M., Bastien MF, Hame S. (1993), Suicidal attempts and ideations among adolescent and young adults : the contribution of father’s and mother’s care and of parental separation, Social Psychiatry and Psichiatric Epidemiology, 28 (5), 256-61, October;
– Vegetti Finzi S., A.M. Battistin (1996), I bambini sono cambiati, Mondadori, Milano;
– Vezzetti V. (2009), Il figlio di genitori separati” in Pediatria Preventiva e Sociale 3-4, pp. 5-8;
1 Non di rado ciò è giustificato, soprattutto nei primi mesi di vita del minore in funzione dell’allattamento o dello svezzamento non riconoscendo che tali momenti sono importanti ma che non coinvolgono la madre per l’intera durata della giornata (tra un allattamento e l’altro, ad esempio senza voler essere riduttivi, il minore potrebbe godere benissimo della figura paterna per un cambio di pannolino o altro così come accade solitamente nelle famiglie unite). Nondimeno esistono numerose ricerche che evidenziano la necessità che la madre possa essere aiutata nelle funzioni di accudimento del minore onde evitare l’insorgenza di patologie quali, ad esempio, la depressione post-partum;
2 Discorso a se stante deve essere fatto quando uno dei due genitori decede. In tale frangente l’assenza del genitore è meglio elaborata e, non di rado, familiari vicini al genitore sopravissuto si attivano per colmare il vuoto mancante. Si rimanda a Pezzuolo S., “Questi paradossi dei padri” in http://www.personaedanno.it/cms/data/articoli/017891.aspx?abstract=true.
Un genitore assente per conflitto coniugale, mobbing genitoriale o sindrome di alienazione genitoriale fanno incorrere il minore in conflitti di lealtà che non di rado possono sfociare in problematiche psicologiche;
3 A tale proposito rifacendosi ai dati ISTAT 2003, prima dell’entrata in vigore della legge sull’affido condiviso, la panoramica era quella dell’affidamento esclusivo alla madre (83,9%), affidamento congiunto (11,9%), affidamento al padre (3,8%) nelle separazioni. Nei divorzi il panorama cambiava di poco affidamento al padre (5,7%), affidamento alla madre (83,8%), affidamento congiunto (9,8%).
4 La separazione è un evento doloroso sia per chi lo subisce sia per chi lo impone, difficilmente una coppia decide serenamente di abbandonare il progetto familiare, spesso la decisione è accompagnata da trascorsi altamente conflittuali. In tali circostanze risulta difficile per la coppia tenere separate le competenze genitoriali dal fallimento coniugale.
5 Le famiglie esaminate per questo raffronto sono state 12 per ciascun gruppo;
6 Tale informazione potrebbe essere spiegata alla luce del maggior periodo di tempo che il genitore affidatario trascorre con il minore. Ricordiamo che la ricerca risale al 2005 quindi ancora non era entrata in vigore la legge sull’affido condiviso;
7 Non è stato però reso esplicito dagli autori la metodologia d’indagine per verificare la presenza di disagio;
8 Gli effetti secondo gli autori della ricerca potrebbero rendersi manifesti a lungo termine (in merito a ciò ad esempio rimandiamo anche ai contributo della Baker), nelle situazioni PAS si registrano maggiormente problemi di identità e sviluppo di un falso Sé, i minori PAS presentano un comportamento manipolativo, tendono a distorcere la realtà familiare e ad avere uno scarso rispetto per le autorità etc.;