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La complementarietà genitoriale nell’educazione dei figli in caso di separazione e divorzio: il ruolo del padre nella crescita del minore

di Sara Pezzuolo

Nel nostro ordinamento, l’art. 30 della Costituzione recita: “E’ dovere e diritto del genitore mantenere, educare e istruire i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”.

Se da anni i legislatori cercano di contenere le molteplici problematiche della famiglia, non dobbiamo perdere di vista che comunque la famiglia nasce, si sviluppa, si concretizza e si modifica all’interno di dinamiche relazionali. Le statistiche degli ultimi anni evidenziano un numero crescente di separazioni accompagnate da difficoltà, conflitti con la conseguente necessità di occuparsi di questi eventi avvalendosi di approcci multidisciplinari (sociali, culturali e psicologici, etc.).

Con il termine “Bigenitorialità” nel 1989 la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia definisce il minore come soggetto di diritti e non solo quale destinatario di protezione e tutela; in tal senso viene ribadito e ufficializzato il fatto che i figli hanno diritto di ricevere affetto, educazione e cure da entrambi i genitori. Succede però che l’intreccio tra i legami di coniugalità e di genitorialità venga messo a dura prova in caso di separazioni e divorzi, quando, l’esercizio delle funzioni genitoriali, critico alle volte anche nelle famiglie unite, deve essere gestito modificato e rinnovato.

Nel considerare gli effetti della vicenda separativa occorre evidenziare che l’elemento patologizzante non è la separazione in sé, ma il tipo e la qualità di relazione che caratterizza le coppie che si separano e che investe, di conseguenza, i minori. Da anni la ricerca psicologica in ambito di separazioni prova ad evidenziare che il fattore preoccupante è connesso alla perdita di un genitore, spesso del padre, e, di conseguenza, alla deprivazione delle funzioni genitoriali che gli competono.

All’interno del nucleo familiare il ruolo della figura materna è sempre stato riconosciuto come inconfutabile1, la funzione della figura paterna, al contrario, ha subito progressivi mutamenti a secondo del contesto storico e socio-culturale con il quale si è dovuta confrontare.

La psicologia dello sviluppo infantile ha posto molta attenzione sulle relazioni interpersonali che si instaurano tra genitori e figli tuttavia, forse per complessità metodologica, ha privilegiato l’osservazione di relazioni diadiche (madre-figlio, padre-figlio) a discapito della relazione triadica che definisce e caratterizza la famiglia. Stern (1992) con le sue ricerche ha dimostrato che la relazione madre-figlio e padre-figlio è fortemente influenzata dalle dinamiche della coppia genitoriale. Ad esempio, lo stesso autore, afferma che una madre può essere molto competente quando è sola con il bambino o in presenza di altre figure per lei significative (ad esempio la propria madre), e può non esserlo in presenza del marito con il quale ha attivo un conflitto. Pertanto egli conclude che una relazione conflittuale tra genitori influenza negativamente anche il rapporto padre-figlio.

La dinamica sopra brevemente descritta, è da tradursi anche in positivo nel momento in cui un genitore poco competente può acquisire maggiori capacità grazie a stimoli provenienti da un’adeguata collaborazione coniugale.

La figura paterna ricopre importanti funzioni fin dai primi mesi di vita dei figli ma il suo ruolo va osservato all’interno della triade: la qualità della relazione dei genitori è fondamentale per consentire alla madre e al bambino di svolgere adeguatamente il proprio compito evolutivo. Con la prima infanzia e con l’adolescenza le relazioni dirette madre-figlio padre-figlio assumono la stessa importanza (F. Baldoni, 2005). Come sottolinea Bollea (1999) nei primi anni di vita il bambino porta avanti il suo continuo lavoro di adattamento al mondo esterno prevalentemente attraverso il padre, sia nell’imitarlo, sia nell’accettare o meno le imposizioni. L’instaurarsi di una relazione significativa, sicura e costante con il padre permette un adeguato sviluppo sociale ed emotivo dei figli. Caratteristica fondamentale della funzione paterna è proprio quella di favorire il processo di separazione dalla madre e introdurre il figlio, attraverso il linguaggio logico, al pensiero razionale e al rispetto delle regole nell’universo delle relazioni sociali. Al padre è simbolicamente affidato il compito di traghettare gradualmente il figlio dal territorio materno a quello della società favorendo l’emancipazione dall’infanzia e il suo ingresso nel mondo adulto. In altre parole è il padre che contiene e progressivamente delimita quel rapporto stretto e totalizzante esistente tra madre e figlio. Ogni genitore ha un proprio ruolo e solo insieme essi si integrano e si completano2. Il padre in quanto portatore di un modello responsabile e capace di assumere decisioni, costituisce una figura determinante nella prevenzione di eventuali comportamenti antisociali; la madre, in quanto figura portatrice di affetto e fiducia, è fondamentale per favorire il dialogo e la stima di sé. Il padre, inoltre, favorisce l’evoluzione dell’affettività adulta, in quanto è proprio l’amore paterno, non scontato ma condizionato, che va conquistato e quindi richiede uno sforzo che si avvicina all’amore maturo. Il rapporto padre-figlio che si delinea sin dai primissimi anni di vita, modellerà l’immagine che il figlio avrà di sé stesso e degli altri alimentando la dimensione profonda dei suoi sentimenti. In età scolare la mancanza di un solido rapporto con il padre, determina forti vissuti di ansia nel bambino soprattutto di fronte ad una situazione nuova come quella scolastica, dove deve rapportarsi con figure nuove e con nuove autorità. La valenza della figura patera sembra assumere un ruolo decisivo anche tra i fattori del comportamento delinquenziale degli adolescenti, soprattutto in relazione al fatto che, nella nostra società, il padre costituisce l’istanza morale fondamentale per la formazione di una “coscienza etico-sociale” (Vegetti Finzi S., A.M. Battistin 1996). L’opinione comune è che oggi il padre stia cercando di trovare altre dimensioni nei vari ambiti concernenti l’educazione dei figli e queste avvalorano una sua più rilevante partecipazione. Alcuni padri dimostrano notevoli capacità di provvedere anche a figli molto piccoli. Negli ultimi anni si è assistito quindi alla nascita del cosiddetto “padre partecipante”, cioè colui che si allontana dalla figura di padre padrone per creare con i figli una relazione fondata sull’affettività e sulla condivisione. Ne consegue una figura paterna che mantiene le sue prerogative maschili ma che si dimostra anche disponibile a prendersi cura dei propri figli in modo autonomo e responsabile (Andolfi, 2001).

L’importanza educativa dei padri sembra essere stata per lungo tempo sottovalutata dal sistema giudiziario, per cui, tranne nei casi di malattia psichiatrica, uso di droga e presenza di una relazione extraconiugale, la madre veniva automaticamente considerata la depositaria principale della tutela del minore3. Già nel 1986 ad un convegno nazionale sulla paternità M. Quilici dichiarava “I padri sono cambiati ma i giudici non se ne sono accorti”. Solamente nel 2006 con l’introduzione dell’articolo 155 della legge 54 viene inserito l’affido condiviso come forma privilegiata da valutare, per cui i Giudici si trovano spesso a prendere in considerazione la possibilità che i figli minori rimangano affidati ad entrambi i genitori. La nuova legge attesta che anche in caso di separazione personale dei genitori i figli hanno diritto di mantenere un rapporto equilibrato con ciascuno di essi e che la potestà genitoriale è esercitata da entrambi. Questo significa che, almeno formalmente, il ruolo educativo del padre è considerato indispensabile per la crescita dei figli. La paternità e la maternità, anche se costruite in modo diverso, vengono comunque messe a dura prova dalla separazione coniugale4, è bene quindi cercare di capire quali sono le dinamiche che coinvolgono la famiglia in questo contesto. Gli studi di Emilia Dowling e Gill Barnes (2004), di recente attuazione, partono dal presupposto che non esiste nessuna relazione fissa tra il genere di un genitore e ciò che è in grado di fare o non fare per i figli. Gli stessi autori, nel campione di famiglie separate che hanno partecipato alle loro ricerche, evidenziano una vasta gamma di capacità negli uomini nell’essere padri. Uno dei loro progetti di ricerca sottolinea che sono molti i fattori che influenzano lo sviluppo dei ruoli paterni dopo il divorzio. Ad esempio, la capacità degli uomini di essere flessibili nell’organizzazione e nella cura dei figli è correlata alla loro capacità di assumere modalità genitoriali precedentemente definite come appartenenti alle donne, inoltre l’avere avuto un buon padre e un continuo sostegno da parte di uomini nella stessa situazione, fa un’enorme differenza. Alcuni studi sostengono che le donne forniscono tuttora il contesto in cui gli uomini apprendono le competenze genitoriali, ed è probabile che, questo fattore costituisca solo uno degli aspetti che portano ad un’alta incidenza di abbandono del contatto padre-figli nei primi due anni dopo il divorzio. Quello che alcuni padri fanno è quasi costantemente condiviso o dipendente dai suggerimenti della partner, ne risulta che il comportamento paterno è inevitabilmente legato alla condizione di coppia. Va di conseguenza che, quando la coppia è in crisi, il padre può sentirsi insicuro su come comportarsi. Secondo la Dowling i padri, in assenza delle loro ex mogli, hanno concezioni molto diverse sul tempo da dedicare ai figli per sentirsi competenti e fiduciosi come genitori, e questo è connesso al grado in cui la madre permette loro di sviluppare il proprio stile genitoriale dopo il divorzio, indipendente da ciò che lei stessa considera il comportamento “corretto”. Per alcuni padri che non sono stati in grado di sviluppare competenze adeguate, essere criticati dalla ex moglie crea un grave stress. Il primo anno dopo il divorzio può costituire un periodo particolarmente importante per ristrutturare i legami genitoriali e per stabilire la modalità di coinvolgimento del padre. Alta conflittualità e bassa cooperazione in questo periodo, infatti, possono interferire con lo sviluppo di nuove modalità genitoriali.

Il fatto che un padre non viva con i figli non significa che egli non giochi un ruolo attivo nella loro vita o nella mente di questi. Per alcuni bambini, che trovano difficile assimilare l’assenza quotidiana del padre, questa assenza può divenire una presenza più forte di quando vivevano insieme

L’evento separazione mette quind in pericolo un intero sistema di relazioni e di ruoli ben stabiliti, e molto difficile risulta quindi essere il ripristino degli equilibri.

Ogni transizione è un passaggio da una condizione data a una condizione nuova che ripropone ai familiari la necessità di rielaborare le relazioni e dare loro nuovi significati alla luce delle mutate condizioni (Andolfi, 1999). Appare evidente il collegamento nella trasformazione del ruolo di padre, che con l’evento separazione si trova a dover far fronte ad innumerevoli cambiamenti nella forma e nella sostanza, e la necessità di creare nuove modalità di relazione. In alcuni casi il mantenimento della cogenitorialità è messo a rischio fin dai primi momenti in cui la coppia decide di separarsi, il conflitto coniugale spesso si riflette sulle competenze genitoriali, e i figli si trovano ad essere triangolati in giochi di potere e di vendetta. In questo senso va considerato che i genitori, nel rivolgersi ad un istituzione esterna, sono alla ricerca di un contenimento e di un sostegno, che può non risolversi nelle aule dei tribunali, e che una lettura in termini psicologico-relazionali può essere utile per il contenimento del conflitto. Una possibilità parallela a quella giudiziale e particolarmente utile, in alcuni casi, può essere la Mediazione Familiare

La ricerca compiuta da R. Emery, nello Stato della Virginia, negli anni 1999/2000 è un esempio di come, la Mediazione Familiare, possa essere un percorso valido e uno strumento protettivo delle relazioni, in particolare della relazione padre-figlio in seguito alla separazione coniugale.

Alcune separazioni portano nella relazione conflitti cristallizzati e forti battaglie giudiziarie che spesso vengono fatte in nome de quei figli considerati “l’unica ragione di vita”. A tal punto è importante far riferimento ad alcuni contributi scientifici che mirano ad evidenziare le conseguenze della deprivazione della figura paterna, sullo sviluppo psicofisico dei figli.

In Acta Pediatrica 97 (2), 153-158, febbraio 2008 esperti del settore hanno studiato gli effetti del coinvolgimento paterno sul conseguente sviluppo dei figli ottenendo il seguente risultato “L’impegno del padre sembra avere effetti differenti sui risultati desiderabili: riduce la frequenza di problemi comportamentali nei ragazzi, riduce i problemi psicologici nelle giovani donne, migliora lo sviluppo cognitivo, mentre da un lato diluisce la delinquenza e lo svantaggio economico in famiglie dal basso profilo socioeconomico”. Altrettanto interessanti sono le conclusioni alle quali sono giunti i professionisti “E’ evidente l’influenza positiva del coinvolgimento paterno sui risultati sociali, comportamentali e psicologici della prole. Sebbene la letteratura provveda a fornire una definizione solo sufficiente per l’impegno paterno (interazione diretta con il bambino), come una specifica forma di effettivo coinvolgimento paterno, vi è sufficiente conferma per esortare sia i professionisti che i responsabili politici a migliorare le circostanze favorenti il coinvolgimento paterno”.  Ed ancora “Negli USA molti studi hanno evidenziato i danni provenienti dall’assenza del padre – o per scelta del genitore o per volontà ostativa della genitrice – e tra questi sottolineerei American Journal of Pubblic Health, num. 84, 1994, Sheline et al., “I ragazzi con padre assente sono a più alto rischio per comportamenti violenti” e Survey on Child Health, 1993 U.S. Department of Health and Human Services “Bambini che vivono senza un contatto con il loro padre biologico hanno il doppio delle probabilità di lasciare la scuola” .  Assieme a contributi scientifici che evidenziano, sottolineano ed affermano alla comunità scientifica l’importanza della figura genitoriale paterna, numerosi sono gli studi che partono dall’esclusione della stessa nella vita dei minori per poterne studiare le conseguenze. Anziché, quindi, partire dall’assunto di valutare una correlazione positiva tra impegno paterno e sviluppo del figlio, altri autori studiano gli effetti della deprivazione paterna sui minori. Tali ricerche evidenziano che non solo la deprivazione paterna provoca un grave danno al figlio, ma, soprattutto, che il livello di accudimento con cui un genitore si occupa del figlio è direttamente correlato al grado di realizzazione esistenziale del figlio stesso. Tale concetto è ben espresso dalle parole della famosa psicologa Dionna Thompson “la guerra contro il padre è in realtà una guerra contro i figli; il punto non è semplicemente il diritto dei padri o il diritto delle madri, ma il diritto dei figli di avere due genitori che si occupino attivamente della loro vita”.

Vezzetti in particolare pone l’attenzione sulla Sindrome da alienazione genitoriale (PAS) e i danni da deprivazione genitoriale che essa comporta. Altri autori si sono occupati di tale questione pervenendo a risultati diversi. A tal proposito è interessante citare uno studio pilota di A. Lubrano Lavadera e M. Marasco (2005) dal quale emergono risultati che evidenziano, su alcuni aspetti, una controtendenza rispetto alla maggioranza dei risultati ottenuti da altri ricercatori sull’argomento.

Tali autori hanno confrontato due gruppi di minori di cui il gruppo sperimentale era caratterizzato dalla presenza di PAS, l’altro senza diagnosi di PAS5.

Stando ai risultati, gli autori concludono che non è presente alcuna differenza di genere tra l’essere genitore alienante o alienato, quindi il genitore alienante può essere indistintamente il padre o la madre, fondamentale è piuttosto la variabile genitore affidatario/non affidatario, per cui il genitore alienante è sempre quello affidatario6. Altro dato risultante dalla ricerca riguarda la condizione di disagio psichico vissuta dai minori. Infatti, dai dati del campione, viene evidenziata una condizione di disagio psichico per i minori coinvolti senza che venga registrata alcuna differenza tra quelli con diagnosi di PAS e quelli senza PAS7. Questo indica, secondo gli autori, che la PAS non produce effetti più “dannosi” rispetto a quelli provocati generalmente da separazioni altamente conflittuali. Alla luce dei risultati ottenuti, gli autori, fanno alcune considerazioni in merito che ci vedono concordi8. Tuttavia gli stessi autori evidenziano alcuni limiti della ricerca, come l’esiguità del campione, che non consente di fare analisi statistiche più complesse, e il fatto che le famiglie appartengono tutte alla stessa popolazione del Lazio, per cui non può essere fatta generalizzazione a livello nazionale.

Tali studi sul ruolo dei padri, sulle conseguenze dell’assenza della figura paterna, sulle dinamiche conscie e inconscie che si sviluppano allorché la coppia coniugale si separa, dovrebbero essere maggiormente incentivati proprio alla luce di un’apertura che deve essere manifestata e applicata anche all’interno delle Aule dei Tribunali. Da qui l’esigenza che il consulente sia consapevole dei limiti delle ricerche ma anche e soprattutto dei giochi di coalizione e triangolazione nel quale si può trovare intrappolato allorché si trova a valutare l’idoneità genitoriale.

Ciò che comunque ci preme evidenziare, in conclusione di questo contributo, è come, nonostante il padre troppo spesso sia identificato in colui che deve predisporre un assegno mensile, la sua funzione educativa e genitoriale deve essere tutelata a discapito, altrimenti, di un sano sviluppo psicofisico del minore che, come facilmente desumibile, deve essere interesse di tutta la società.

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1 Non di rado ciò è giustificato, soprattutto nei primi mesi di vita del minore in funzione dell’allattamento o dello svezzamento non riconoscendo che tali momenti sono importanti ma che non coinvolgono la madre per l’intera durata della giornata (tra un allattamento e l’altro, ad esempio senza voler essere riduttivi, il minore potrebbe godere benissimo della figura paterna per un cambio di pannolino o altro così come accade solitamente nelle famiglie unite). Nondimeno esistono numerose ricerche che evidenziano la necessità che la madre possa essere aiutata nelle funzioni di accudimento del minore onde evitare l’insorgenza di patologie quali, ad esempio, la depressione post-partum;

2 Discorso a se stante deve essere fatto quando uno dei due genitori decede. In tale frangente l’assenza del genitore è meglio elaborata e, non di rado, familiari vicini al genitore sopravissuto si attivano per colmare il vuoto mancante. Si rimanda a Pezzuolo S., “Questi paradossi dei padri” in http://www.personaedanno.it/cms/data/articoli/017891.aspx?abstract=true.

Un genitore assente per conflitto coniugale, mobbing genitoriale o sindrome di alienazione genitoriale fanno incorrere il minore in conflitti di lealtà che non di rado possono sfociare in problematiche psicologiche;

3 A tale proposito rifacendosi ai dati ISTAT 2003, prima dell’entrata in vigore della legge sull’affido condiviso, la panoramica era quella dell’affidamento esclusivo alla madre (83,9%), affidamento congiunto (11,9%), affidamento al padre (3,8%) nelle separazioni. Nei divorzi il panorama cambiava di poco affidamento al padre (5,7%), affidamento alla madre (83,8%), affidamento congiunto (9,8%).

4 La separazione è un evento doloroso sia per chi lo subisce sia per chi lo impone, difficilmente una coppia decide serenamente di abbandonare il progetto familiare, spesso la decisione è accompagnata da trascorsi altamente conflittuali. In tali circostanze risulta difficile per la coppia tenere separate le competenze genitoriali dal fallimento coniugale.

5 Le famiglie esaminate per questo raffronto sono state 12 per ciascun gruppo;

6 Tale informazione potrebbe essere spiegata alla luce del maggior periodo di tempo che il genitore affidatario trascorre con il minore. Ricordiamo che la ricerca risale al 2005 quindi ancora non era entrata in vigore la legge sull’affido condiviso;

7 Non è stato però reso esplicito dagli autori la metodologia d’indagine per verificare la presenza di disagio;

8 Gli effetti secondo gli autori della ricerca potrebbero rendersi manifesti a lungo termine (in merito a ciò ad esempio rimandiamo anche ai contributo della Baker), nelle situazioni PAS si registrano maggiormente problemi di identità e sviluppo di un falso Sé, i minori PAS presentano un comportamento manipolativo, tendono a distorcere la realtà familiare e ad avere uno scarso rispetto per le autorità etc.;

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