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Il problema del terrorismo psicologico e della vittimologia nelle vittime di mafia

di Sara Pezzuolo

Il problema del terrorismo psicologico e della vittimologia nelle vittime di mafia è il nodo cardine dell’art. 416 bis del codice penale quando recita “… l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo e della condizione di omertà che ne deriva…”.

Questi concetti trovano la loro estrinsecazione nella cosiddetta organizzazione criminale che, detto in maniera estremamente riduttiva, ha tre o quattro caratteristiche riscontrabili sia nelle organizzazioni “nostrane” sia nelle mafie “estere”.

Tali caratteristiche sono:

  • Struttura organizzativa: l’associazione a delinquere è caratterizzata da un’organizzazione che coordina e gestisce le attività illegali;

  • Segreto: insito nel concetto di appartenenza all’associazione a delinquere vi è il concetto di segreto che, rinsalda il vincolo associativo, e, sancisce ancora di più i ruoli all’interno della associazione stessa;

  • Leaderschip: la struttura, generalmente di tipo gerarchico ha, al suo interno, il cosiddetto vertice. Tale vertice può essere costituito da un solo individuo oppure da più individui (es. nelle associazioni a delinquere in cui il contesto e la storia del vincolo familiare assumono particolare rilevanza a capo dell’associazione non vi sarà un solo individuo ma ruoli e poteri diversi spetteranno ai vari componenti della famiglia).Tale concezione si sta modificando nel tempo. Infatti, i gruppi criminali, assumendo sempre più caratteristiche transnazionali, sono in costante divenire, in un fase di continuo cambiamento. Tale evoluzione porta in sé modificazioni anche per quanto concerne la stessa struttura interna che, da verticistica, assume caratteristiche maggiormente flessibili e mutevoli;

  • Finalità ed obiettivi: l’arricchimento economico-finanziario è il “motore” interno all’associazione, il perno attorno al quale viene imbastita tutta la attività delinquenziale. È quindi il concetto di arricchimento o, comunque, il piano finanziario che determina l’evoluzione dei tipi di reato e, in taluni casi, anche l’evoluzione di un concetto storico-filosofico. Tale realtà è bene espressa dal reato di prostituzione. Tale tipologia di reato seppur da sempre presente negli ambienti criminali, è stato il reato “principe” di talune associazioni a delinquere di stampo mafioso piuttosto che di altre. Nell’ambito dell’associazione a delinquere di stampo mafioso di etnia cinese, esso ha preso campo successivamente rispetto ad altre fattispecie delittuose e, cioè, quando essa non ha potuto più far affidamento sul reato a maggiore garanzia di introiti, il reato di immigrazione clandestina.

Tale percorso è stato accompagnato sia da una diversa concezione del reato stesso (le prostitute cinesi gestiscono il loro spazio ed i loro tempo),sia da un cambiamento, che ha origini nella cultura orientale, della concezione di donna;

All’interno di tali organizzazioni il potere e il vigore sono garantiti dalla “forza d’intimidazione” e dall’“omertà”.

Assieme all’omertà, termine con il quale si intende l’atteggiamento di ostinato silenzio teso a non denunciare i reati, neppure quelli di matrice più grave, dei quali in maniera diretta o indiretta si viene a conoscenza, in forme di associazione a delinquere che mettono in atto pratiche persuasive efficaci, si può riconoscere un atteggiamento di sudditanza psicologica che spesso può sfociare in terrorismo psicologico.

Tale forma di prevaricazione psicologica si plasma e diventa tangibile proprio in funzione della forza d’intimidazione del vincolo associativo. Ciò che in linea generale viene definito come terrorismo è il seguente concetto “… ad un primo livello si può dire che il terrorismo è una modalità primitiva di comportamento umano che produce potere attraverso la manifestazione diretta o indiretta della capacità di violenza; ad un secondo livello si può dire che il terrorismo è uno strumento di cui gli uomini possono servirsi per influenzare, attraverso un uso economico della violenza nella direzione prescelta e per effetti diversi, il comportamento di altri uomini…”1. In tale contesto ciò che diventa la matrice di un atteggiamento di sudditanza psicologica, di omertà, di paura anche per la propria incolumità, è la forza intrinseca del gruppo attraverso l’ausilio di modalità violente. L’individuo, sia esso vittima o carnefice, fa parte integrante di una rete in cui il gradiente primario è la forza d’intimidazione sia verso l’interno che verso l’esterno tramite il quale il vincolo associativo prende forma.

Ma chi è la vittima? La disciplina che studia il crimine dalla parte della vittima è la vittimologia definita da Gulotta e collaboratori (2000) come “… disciplina che studia il crimine dalla parte della vittima con scopi diagnostici, preventivi, riparativi e trattamentali del reato e della conseguente vittimizzazione”.

Quando apprendiamo dai media una notizia di reato la stessa azione criminale suscita in noi dinamiche emozionali diverse a seconda della vittima stessa. Pensiamo ai sentimenti che ci pervadono quando apprendiamo che vi è stata una vittima di omicidio perché si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato, o l’indignazione che abbiamo provato alla notizia della strage di Erba, le emozioni che si susseguono in noi quando la vittima è un familiare, un amico, un appartenente al clan mafioso, vittima, come nella morsa di una ragnatela, dello steso sistema di cui lui, ed i suoi simili, fanno parte.

Nel caso delle vittime di omicidio dei familiari di Mafia si può parlare di vittime passive trasversali, cioè, non potendo arrivare direttamente all’obiettivo, l’azione criminosa viene indirizzata verso chi è a lui vicino, alla quale morte viene in realtà affidato un messaggio più grande di quello riconducibile alla mera azione criminale stessa. Non è l’omicidio in quanto tale che deve colpire l’immaginario collettivo ma chi di quell’omicidio è vittima.

Nell’ambito della criminologia oggetto di studio, tra le attività delinquenziali poste in essere da associazioni malavitose presenti sul territorio italiano, è la relazione vittima-autore che si realizza nei sequestri di persona. Le vittime di sequestro di persona tendono a mettere in atto una specifica modalità di relazione tra sequestratore e sequestrato basata su meccanismi di dipendenza, negazione, identificazione etc. che prende il nome di sindrome di Stoccolma. Da parte della vittima vi è una sorta di identificazione con l’aggressore, che si concretizza in uno sminuire gli atti di prevaricazione subiti: dalla totale dipendenza dall’altro per la sopravvivenza, con l’altro, si stabilisce un legame che può portare alla giustificazione del comportamento dell’aggressore, come vittima, a sua volta, di sofferenze patite in precedenza. Ad eccezione dei sequestri di persona posti in essere dalla criminalità sarda, anche la relazione dell’aggressore con la vittima subisce modificazioni diminuendo o rallentando quella che è la messa in atto di ostilità. Come dicevamo sopra, a questa relazione, che trova una componente nell’empatia esperita da autore e vittima, fa eccezione il sequestro sardo. In tale relazione, la distanza emotiva, continua ad esservi poiché la relazione stessa è imperniata di violenza. Per tale motivo, nonostante il processo di dipendenza dall’aggressore rimanga, l’entità delle violenze subite non permette il passaggio all’identificazione in quanto, quest’ultime, risultano essere poste in essere gratuitamente, afinalisticamente, e di conseguenza, percepite come umanamente incomprensibili.

Sempre per restare in tema di vittimologia interessante è notare la concezione di vittima espressa in merito alle vittime dell’immigrazione clandestina della criminalità organizzata cinese. L’immigrato clandestino viene concepito e trattato, dai suoi connazionali, come merce di scambio, sottoposto a continue costrizioni sia fisiche che psichiche. Un quadro chiaro e “illuminante” viene riportato da una collaboratrice di giustizia cinese, prima vittima della mafia del suo Paese in Italia, poi collaboratrice di Polizia in qualità d’interprete2.

Quando si è voluto indagare la nozione di vittima del sistema di criminalità organizzata cinese in particolare quella riferibile all’immigrato, la protagonista dell’intervista ci ha così risposto: “ no, no, no… non è una vittima. L’organizzazione ci guadagna, giustamente, è un lavoro pericoloso far venire gente qua, dalla Cina all’Italia non sono cento chilometri sono molti ma molti di più, ed è un lavoro pericoloso. Ogni clandestino che decide di venire qua è cosciente, sa cosa dovrà affrontare, perciò io non riesco ad accollare tutta la responsabilità all’organizzazione che lo fa per scagionare il clandestino… questo è il mio punto di vista”.3

Ci possiamo chiedere se tale nozione di vittima consapevole, in qualche modo, del proprio destino, sia ascrivibile anche a coloro che, migranti, si preparano a partire su barconi fatiscenti, strapieni, guidati da speranze, un lavoro ben retribuito, una differente condizione economico-sociale, storie che, purtroppo, riempiono le nostre pagine di cronaca che terminano o con azioni della Autorità Italiane o, come ultimamente accade, con affondamenti dei quali, la vittima stessa, il migrante disperato etc., non ha fatto altro che colludere4 con il suo stesso carnefice.

Se la vittimologia, di solito studia ed analizza le caratteristiche della vittima (sesso, età, condizione sociale, il ruolo che quest’ultima ha avuto nella genesi del reato, etc.,) più difficile risulta essere l’applicazione di tali studi alle vittime di mafie o comunque alle vittime delle associazioni a delinquere.

Tali difficoltà sono riconducibili a diversi fattori. In primis il fenomeno delle vittima di mafia risulta essere poco studiato. Tale difficoltà può derivare dal silenzio che ruota attorno a tale costruzione, ricordo ad esempio l’importanza del segreto e del vincolo associativo fra i diversi affiliati che impedisce l’apertura del sistema all’esterno con la conseguente mancanza di conoscenza, in secondo luogo, l’evoluzione della criminalità odierna ha posto su più fronti diverse mafie, non assistiamo più solo alla “mafia italiana” (nella quale espressione riconduciamo tutte le associazioni che trovano ragion di essere sul territorio nazionale e sono di origine italiana) ma, anche altre associazioni criminali, altri mondi che si sono inseriti nel nostro e che, hanno cultura, storia e tradizioni diverse e dalle cui origine prende forma il concetto di vittima, di reato etc.

Per fare un esempio concreto di quanto espresso sopra, stupisce la concezione di individuo mafioso che viene proposta da un’appartenente ad un famiglia riconosciuta, con sentenza passata in giudicato, come la famiglia mafiosa cinese in Italia. Quando si chiede al giovane protagonista dell’intervista se esiste la mafia cinese in Italia ma soprattutto chi è il mafioso egli risponde: “non c’è il mafioso, c’è una persona che si fa rispettare…”5.

Di pensiero opposto può essere chi ha deciso di ribellarsi a questa “persona che si fa rispettare”. E’ la storia di un imprenditore siciliano, Nino Miceli, il quale vittima della mafia siciliana, dopo aver vissuto l’incubo del “pizzo” decide di fidarsi delle Autorità6. Chi si ribella a questo tipo di “regime”, affronta un’altra ed importante sfida, non solo con la cultura nella quale vive e con la sua famiglia ma soprattutto con sé stesso. Non possiamo dimenticare infatti che, il processo di ribellione non si ferma, non si può fermare ad una denuncia. Queste persone si avviano come lungo il famoso corridoio del film “Il miglio Verde”, accompagnati dalla frase “dead man walking”. Si, queste persone, il loro passato, la loro scelta di ribellione è sancita. Il dado è tratto. Queste persone ripartono da sé stesse. Ripartono dai loro sogni e dai loro obiettivi, ripartono con un nuovo nome, una nuova identità. Ciò non deve demordere chi vorrebbe ma ha paura di denunciare, chi è entrato nella morsa dell’assoggettamento psicologico, ma deve essere spunto di riflessione per chi è ancora vittima di intimidazioni. L’unione fa la forza, il muro dell’omertà deve cadere. La fiducia tra vittima e Autorità deve essere costruita “… la garanzia della tutela della fonte da parte dell’investigatore (…) è data dal rapporto fiduciario, che deve essere creato di passo in passo, coltivando il dialogo e approfondendo la conoscenza personale (…). Il momento della denuncia deve comunque arrivare. Non può esservi una condanna per estorsione se una vittima vivente non dichiara davanti al Tribunale quanto patito”7.

Le vittime non possono e non devono essere lasciate sole. Dietro ad un’attività produttiva vi è un uomo, un grande uomo che ha detto no. Un uomo che riparte da sé stesso, che riparte da uno Stato che deve, vuole e può combattere la criminalità. 

Bibliografia:

  • Ayan Steve, Scientific American Mind, Dec. 2007/Jan 2008, Vol. 18, Issue 6;

  • Pezzuolo S., Manfrellotti G., Mafia cinese o made in china? La criminalità cinese in Italia: personaggi, testimonianze, reati ed azioni di contrasto, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2008;

  • Ponti P., Merzagora B. I., Compendio di Criminologia. Quinta Edizione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008;

  • Riccardi R., “Aiutare le vittime di mafia a ribellarsi”, Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, Vo. I- N.2- Maggio-Agosto 2007;

  • Volterra V. (a cura di), Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica, Masson Editore, Milano, 2006; 

1 V. Volterra (a cura di), Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica, Milano, Masson, 2006;

2 Per maggiori dettagli si rimanda a Pezzuolo S., Manfrellotti G, “Mafia cinese o Made in China? La criminalità cinese in Italia: personaggi, testimonianze, reati ed azioni di contrasto.”, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2008;

3 Ibidem;

4 La collusione è un meccanismo in psicologia clinica attraverso il quale il terapeuta asseconda le richieste del paziente indipendentemente che queste siano funzionali o meno alla risoluzione del problema presentato.;

5 Ibidem

6 Per maggiori dettagli rispetto al caso portato ad esempio si rimanda a Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, Vol. I – N.2 – Maggio-Agosto 2007;

7 Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza Vol. I- N.2- Maggio-Agosto 2007;

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