Home Sentenze Detenzione domiciliare in “deroga” anche in caso di 41 bis ord. pen. in caso di grave patologia psichica

Detenzione domiciliare in “deroga” anche in caso di 41 bis ord. pen. in caso di grave patologia psichica

di Sara Pezzuolo

Facendo propria la decisione n. 99 della Corte Costituzionale del 20 febbraio 2019 (depositata il 19 aprile 2019) si conferma, secondo Cassazione, il principio che nei casi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare in “deroga” alla detenzione carceraria.

Si sottolinea difatti nella sentenza della Corte Costituzionale citata che “la malattia psichica è fonte di sofferenze non meno della malattia fisica ed è appena il caso di ricordare che il diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di cui ogni persona è titolare, deve intendersi come comprensivo non solo della salute fisica, ma anche della salute psichica, alla quale l’ordinamento è tenuto ad apprestare un identico grado di tutela (tra le molte, sentenze n. 169 del 2017, n. 162 del 2014, n. 251 del 2008, n. 359 del 2003, n. 282 del 2002 e n. 167 del 1999), anche con adeguati mezzi per garantirne l’effettività. Occorre, anzi, considerare che soprattutto le patologie psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi proprio per la reclusione: la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, si da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale. Come emerge anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (tra le altre, Corte EDU, seconda sezione, sentenza 17 novembre 2015, Bamouhammad contro Belgio, paragrafo 119, e corte EDU, grande camera, sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, paragrafo 105), in taluni casi mantenere in condizione di detenzione una persona affetta da grave malattia mentale assurge a vero e proprio trattamento inumano o degradante, nel linguaggio dell’art. 3 CEDU, ovvero a trattamento contrario al senso di umanità, secondo le espressioni usate dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione italiana. Se è vero che la tutela della salute mentale dei detenuti richiede interventi complessi e integrati, che muovano anzitutto da un potenziamento delle strutture sanitarie in carcere, è vero altresì che occorre che l’ordinamento preveda anche percorsi terapeutici esterni, almeno per i casi di accertata incompatibilità con l’ambiente carcerario. Per questi casi gravi, l’ordinamento deve prevedere misure alternative alla detenzione carceraria, che il giudice possa disporre caso per caso, momento per momento, modulando il percorso penitenziario tenendo conto e della tutela della salute dei malati psichici e della pericolosità del condannato, di modo che non siano sacrificate le esigenze della sicurezza collettiva. Per le ragioni sopra esposte, questa Corte ritiene in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 32 e 117, primo comma, Cost. l’assenza di ogni alternativa al carcere, che impedisce al giudice di disporre che la pena sia eseguita fuori dagli istituti di detenzione, anche qualora, a seguito di tutti i necessari accertamenti medici, sia stata riscontrata una malattia mentale che provochi una sofferenza talmente grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività del carcere, dia luogo a un supplemento di pena contrario al senso di umanità (…)”.

Attraverso quindi un’attenta disamina, occorre operare un bilanciamento dei valori coinvolti che riconosca “(..) anche alle ipotesi di infermità psichica di gravità e consistenza tale da determinare, in caso di protrazione della detenzione inframuraria, quel “supplemento di pena” contrario al senso di umanità testé evocato. In tale quadro, peraltro, si evidenzia che la misura in questione può essere “modellata” dal giudice si da salvaguardare tanto il fondamentale diritto alla salute della persona sottoposta ad esecuzione penale che le esigenze di difesa della collettività, così come la allocazione del portatore della patologia psichica non è da individuarsi necessariamente con il “domicilio” ma con il luogo “più adeguato” a contemperare le diverse esigenze coinvolte (ad es. un luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza), con valutazione caso per caso ed apprezzamento concreto, tanto della gravità della patologia che del livello di pericolosità sociale di cui si discute”.

Infine, secondo la Corte, non può ritenersi di ostacolo nella valutazione dell’applicazione della misura di detenzione domiciliare “in deroga” né l’entità del residuo pena, né il titolo di reato in esecuzione, né la sottoposizione al regime differenziato dell’art. 41 bis ord. pen.

In allegato la sentenza completa.

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